lunedì 19 novembre 2007

La tragedia del comandante Libero






ILLUSTRANDO le fasi convulse della nascita dell’8° Brigata Garibaldi, la formazione partigiana che operò sull’Appennino forlivese-cesenate, il sito internet dell’Istituto per la storia della Resistenza spiega: «Ai primi di dicembre 1943 fu nominato comandante del distaccamento Riccardo Fedel (Libero), le cui concezioni della lotta partigiana lo posero in dissidio prima con Antonio Carini, responsabile militare dei partigiani romagnoli, e poi con Ilario Tabarri (Pietro), che alla fine del marzo 1944, dopo un drammatico confronto politico, lo sostituì al comando della brigata, forte in quel momento di quasi mille unità». Una tragedia e un crimine liquidati con la riduttiva espressione ‘un drammatico confronto politico’. Un perfetto esempio del silenzio calato a forza da oltre sessant’anni sui delitti commessi nel campo della Resistenza. Sì, perché il capo partigiano Riccardo Fedel, nome di battaglia ‘Libero’, fu estromesso dal comando e liquidato brutalmente, ucciso insieme alla sua compagna Zita Chiap e diffamato anche dopo la morte. Tanto che il suo nome non compare nemmeno nell’elenco dei caduti della Resistenza.Riccardo Fedel era un militante comunista di Gorizia, nato nel 1905, che l’8 settembre 1943 lasciò la divisa dell’esercito italiano e divenne partigiano in Romagna, animando la prima formazione della Resistenza in montagna. Insofferente alla disciplina di partito e alle direttive dei comandi, si mise in urto coi capi del Pci e specialmente con Ilario Tabarri, un ‘mastino’ che aveva combattuto in Spagna e professava uno stalinismo inflessibile. Libero segnò così il suo destino. Andava tolto di mezzo, a qualunque costo. Fu destituito e accusato di essersi impossessato illecitamente di una somma paracadutata dagli alleati. Fu cacciato, poi braccato e infine catturato. Non si sa esattamente dove sia stato ucciso, ma è certo che la sua condanna — esibita dopo la guerra — è un falso. Così com’è falsa l’accusa di essere stato un informatore dei fascisti. Le battaglie dei familiari e dei ricercatori storici gli hanno reso la dignità, ma i ‘Guardiani della memoria’ — come dice Pansa — non gli hanno ancora restituito l’onore e soprattutto la verità.
Emanuele Chesi

Intervista a Giampaolo Pansa

LA TRAGEDIA di Libero (Riccardo Fedel), primo comandante del Gruppo Brigate Romagna (poi 8° Brigata Garibaldi) fatto uccidere dai nuovi comandanti di brigata che lo avevano prima denigrato e poi estromesso, è stata portata all’attenzione nazionale dall’ultimo libro di Giampaolo Pansa «I gendarmi della memoria». L’editorialista dell’Espresso, una delle più importanti firme del giornalismo politico italiano, è uno storico di formazione. Nato nel 1935 a Casale Monferrato e laureatosi nel 1959 con una tesi sulla guerra partigiana tra Genova e il Po, è stato allievo di Guido Quazza e Alessandro Galante Garrone. Ha scritto numerosi libri ma con gli ultimi — dal ‘Sangue dei vinti’ a ‘Sconosciuto 1945’ — ha suscitato un aspro dibattito sollevando il velo su tragedie ed eccidi della guerra civile e dell’immediato dopoguerra.
Nel suo ultimo libro «I gendarmi della memoria» molte pagine sono dedicate ad episodi cruenti avvenuti nel periodo 1945-48 in Emilia. Per la prima volta porta però alla ribalta nazionale la figura di Libero. Qual è l’importanza di questo caso?
PANSA «Il merito di aver scoperto e ricostruito la storia di Libero va tutto all'avvocato Natale Graziani. Lo ringrazio anche qui per avermi concesso di utilizzare la sua straordinaria ricerca. Questa vicenda è un esempio delle ‘zone d'ombra’ che ancora esistono nella storia della Resistenza italiana, come aveva detto un anno fa il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Cercare di illuminarle non vuol dire diffamare la guerra partigiana, come strillano i ‘Gendarmi della Memoria’. Ma significa restituire a quella tragica fase della nostra storia nazionale la sua realtà, il suo dramma e anche la sua umanità lacerata».
La vicenda di Libero è emblematica dei conflitti e delle contraddizioni all'interno del movimento partigiano?
«Da tempo, nei miei libri parlo di tante piccole Porzus che dovrebbero essere raccontate. Quasi tutte hanno la stessa origine: il predominio del Pci sugli altri partiti antifascisti e la strategia rivoluzionaria delle formazioni comuniste. Ormai, questa mi sembra una affermazione quasi banale. Però c'è ancora molta gente, a sinistra, che non vuol sapere e non vuol vedere. Anche questo è uno dei motivi della decadenza delle tante sinistre nate dal dissolvimento del vecchio Partitone Rosso».
Per l'altro protagonista della vicenda, Ilario Tabarri ‘Pietro’, detto ‘lo spagnolo’, lei ha parole dure. Chi era Tabarri?
«Non mi pare di aver scritto parole dure su Tabarri. Ho tentato di raccontarlo nella sua verità storica. Del resto, basta leggere i suoi scritti per capire che lo Spagnolo era il classico quadro comunista del Comintern. Un uomo di certo coerente e coraggioso, ma del tutto schiavo della propria ideologia».
Il dramma di questa vicenda sta nel fatto che dopo 63 anni non si vuole riconoscere fino in fondo l'onore a Libero e nemmeno dire al figlio Luciano Fedel (che è rimasto legato alla sinistra nonostante tutto) dove è stato ucciso e sepolto il padre!
«Di drammi simili a quelli di Libero è piena la storia della Seconda guerra mondiale e anche della nostra Resistenza. Le tracce di quella fase storica persistono. Il silenzio non giova a nessuno. La verità è l'unica legge alla quale uno storico deve obbedire. Tanto più se è un dilettante come me».
(intervista di Oscar Bandini)

1 commento:

nonnopino ha detto...

Ci sono delle voci che Ilario Tabarri, su pressioni di Boldrini, inviò lui a Dazzani,Franco Rossi per catturare Corbari.
Qusto perché Corbari conduceva azioni autonome in contrasto con le strategie dei partigiani comunisti.

Qualcuno ha notizie di questo fatto?
giuseppedellavalle@alice.it