domenica 24 agosto 2008

Quelle 'spie' forlivesi dietro la cortina di ferro

di Emanuele Chesi

GIUNSE assordante e pauroso anche a Forlì il rumore dei cingoli dei carri armati sovietici che nell’agosto di quarant’anni fa schiacciarono nel sangue la ‘Primavera di Praga’. Accanto alle speranze di Dubcek per un ‘socialismo dal volto umano’ c’erano infatti anche quelle dei cattolici della ‘Chiesa del silenzio’ cecoslovacca, da lungo tempo in contatto con la nostra città grazie all’azione pionieristica di don Francesco Ricci. Grazie al sacerdote collaboratore di don Giussani, parecchi giovani forlivesi toccarono con mano la realtà della vita al di là della cortina di ferro e furono testimoni di quel cruciale periodo della storia europea.

DON RICCI aveva creato infatti a Forlì il Centro studi Europa orientale (Cseo) intessendo una fitta rete di relazioni coi paesi dell’allora blocco sovietico, spinto dalla convinzione (a quel tempo pareva un’eresia) dell’indissolubile unità del continente europeo. Insieme a lui, impegnati in avventurosi viaggi nei paesi sotto il tallone dei regimi comunisti, c’erano personaggi come il professor Antonio Setola e il cantautore Claudio Chieffo, che tenne addirittura alcuni concerti clandestini a Praga.

UNA TESTIMONE diretta di quel periodo è Antonietta Tartagni, ex insegnante di lettere al liceo classico di Forlì, oggi in pensione. «Ci recavamo nei paesi dell’est spacciandoci per semplici turisti — racconta — Don Ricci era ovviamente in abiti civili e si presentava come un professore accompagnato dai suoi allievi. Ricordo Agnese Pesenti, Anna Lena, Licia Morra, Riccardo Lanzoni, Giorgio Aloisi e altri. Questa esperienza ha dato modo a tanti forlivesi di conoscere realtà allora difficili da penetrare: l’Europa era rigidamente divisa in due e si passava proprio da un mondo all’altro». La professoressa Tartagni visitò Praga prima e dopo l’invasione sovietica, avendo così modo di vedere l’accendersi delle speranze per la libertà e il ritorno alla normalizzazione totalitaria.

LA PARTICOLARITÀ della ‘missione’ del Csoe era l’attenzione al contatto diretto con le persone, anche se ciò obbligava in qualche modo a comportarsi quasi da agenti segreti. «Incontravamo i dissidenti stando sempre a attenti a non attirare l’attenzione della polizia — ricorda — Gli ultimi tratti di strada prima del luogo dell’appuntamento li percorrevamo a piedi o coi mezzi pubblici. Anche quando ci trovavamo faccia a faccia coi nostri interlocutori evitavamo accuratamente di parlare, per non farci riconoscere come stranieri da eventuali spie del regime. C’era chi arrivava a comprare vestiti usati sul luogo per ‘mimetizzarsi’ ancor di più. E la prima cosa che i nostri amici facevano entrando in casa era accendere la radio, in modo da annullare col rumore la presenza di ‘cimici’».

UN LAVORO impegnativo che i giovani forlivesi animati da don Ricci affrontavano con la consapevolezza di infondere una preziosa iniezione di coraggio ai dissidenti. «Ci dicevano che per loro era importantissimo sapere che in occidente c’era chi appoggiava la loro lotta e diffondeva le loro idee». I ragazzi di don Ricci rientravano infatti in Italia riportando in valigia i preziosi ‘samizdat’, i giornali e i libri proibiti dal regime. Un’attività rischiosa che agli stranieri poteva costare qualche grana e infine l’espulsione, ma che per i ‘sudditi’ dei regimi comunisti avrebbe comportato sicuramente l’arresto, la persecuzione e anche il campo di prigionia. «Per questo — dice ancora Antonietta Tartagni — ci preoccupavamo soprattutto di non lasciare traccia dei nostri incontri. Prima di attraversare il confine imparavamo a memoria i nomi e gli indirizzi dei nostri contatti, poi distruggevamo tutti i foglietti».

A SUGGELLARE il profondo legame tra l’allora Cecoslovacchia e Forlì, lo choc dell’invasione sovietica colse un gruppo di giovani praghesi in visita alla nostra città proprio su invito di don Francesco Ricci. «Ebbero ovviamente un grande sbandamento — ricorda la professoressa Tartagni — e qualcuno fu anche tentato di chiedere asilo politico e restare in Italia. Poi tutti decisero di rientrare in patria, seppure con ansia e preoccupazione». Tornata in seguito più volte oltrecortina, Antonietta Tartagni ebbe modo di riparlare dell’entusiasmante periodo della Primavera di Praga coi suoi amici anche nei tempi più cupi: «Tutti ne conservavano un ricordo molto positivo, di grande speranza e unità e del popolo. Lo stesso don Ricci disse che i semi gettati in quel periodo non sono andati perduti ma hanno dato i frutti vent’anni dopo».