domenica 30 dicembre 2007

Labari e preghiere: i funerali dei trucidati a Thiene



Il culto della morte ha sempre avuto un ruolo centrale nella pratica politica fascista, ma se nel primo dopoguerra e durante il regime era funzionale soprattutto alla costruzione dell’ideologia, nel secondo dopoguerra è diventato il luogo fondamentale — basta pensare a Predappio — dell’affermazione della presenza e della dignità politica del rinato movimento. Uno snodo cruciale di questa vicenda che si
trascina ancora ai giorni nostri fu dunque, giusto mezzo secolo fa, il funerale delle 14 vittime dell’eccidio di Thiene. Il 21 dicembre 1957 furono riportate a Forlì, tra i gagliardetti dei reduci e i saluti romani, le spoglie dei militari forlivesi della Rsi trucidati a guerra finita, in una delle stragi più crudeli e sanguinarie dell’immediato dopoguerra. Le esequie si svolsero alla chiesa del Suffragio in un clima di comprensibile tensione.

Il 17 maggio 1945 una ‘squadra della morte’ di partigiani forlivesi entrò in azione a Thiene, in provincia di Vicenza, dove a guerra finita erano stati concentrati parecchi ex militari repubblichini. Ne prelevarono quattordici da un carcere improvvisato, semplicemente sulla base di una lista compilata dal Cln di Forlì: contro di loro non c’erano né accuse né giudizi legali, erano solo prigionieri di guerra come migliaia di altri. La motivazione addotta dai partigiani per il ‘prelievo’ illegale era l’ordine del Cln o del comando di brigata di raccogliere gli ex combattenti nemici per sottoporli al giudizio di un ‘tribunale del popolo’ nei luoghi d’origine.

I fascisti 'nostrani' furono dunque separati dagli altri e letteralmente strappati ai familiari. Nei libri di memorialistica fascista si racconta che tutti si resero immediatamente conto di andare incontro alla morte. Furono caricati su un camioncino rosso targato Forlì e portati in una zona isolata, presso una vecchia trincea. Qui avvenne l’esecuzione a colpi di mitra. Caddero Angelo Aguzzoni, Benito Castagnoli, Alfredo Cimatti, Giovanni Fabbroni, Ermanno Guardigli, Olindo Lazzarini, Luigi Montanari, i fratelli Nello e Odone Picchi, Giuseppe Ragazzini, Libero Rossi, Francesco Sampieri, Giuseppe Simoncelli, Domenico Valbruccioli. Alcuni operai di una vicina cava furono obbligati a ricoprire alla meglio i corpi con palate di terra. E vennero minacciati di non rivelare a nessuno quello che avevano visto.

Ma l'eccidio, anche nel clima di giustizia sommaria e vendetta che avvolgeva quei mesi, destò una grande impressione. Già l’8 agosto 1945 i carabinieri di Thiene denunciarono per omicidio volontario alcuni partigiani forlivesi. Tra alterne vicende, arresti e scarcerazioni, l’iter processuale andò avanti fino al 1958, quando la Corte d’assise di Vicenza condannò a 20 anni di reclusione Annibale Bertaccini, Bruno Servadei, Dino Sughi e Renato Morigi, assolvendo altri partigiani imputati. I giudici chiarirono che, a guerra finita, l’eccidio era stato niente più di un delitto comune, aggravato per giunta dall’appartenenza degli imputati alla polizia partigiana. Le pene vennero però interamente condonate e i killer tornarono tranquillamente alla loro vita, pur venendo emarginati dallo stesso Pci.

Un anno prima che gli fosse in qualche modo resa giustizia, le famiglie delle vittime poterono riportare a Forlì le spoglie dei loro cari. Nello stesso periodo del ritorno della salma di Mussolini a Predappio dopo un decennio di damnatio memoriae, anche gli ‘eredi’ del fascismo avevano in qualche modo riconquistato almeno il diritto a onorare pubblicamente i loro morti.

Emanuele Chesi

domenica 23 dicembre 2007

Uno sguardo all'Impero

Dopo la conquista dell'Etiopia, la carta dei territorio dell'Impero sotto la loggia di Palazzo Albertini, in piazza Saffi a Forlì

venerdì 7 dicembre 2007

Campo Dux


Forlì anni Trenta, parata al Campo Dux

lunedì 19 novembre 2007

La tragedia del comandante Libero






ILLUSTRANDO le fasi convulse della nascita dell’8° Brigata Garibaldi, la formazione partigiana che operò sull’Appennino forlivese-cesenate, il sito internet dell’Istituto per la storia della Resistenza spiega: «Ai primi di dicembre 1943 fu nominato comandante del distaccamento Riccardo Fedel (Libero), le cui concezioni della lotta partigiana lo posero in dissidio prima con Antonio Carini, responsabile militare dei partigiani romagnoli, e poi con Ilario Tabarri (Pietro), che alla fine del marzo 1944, dopo un drammatico confronto politico, lo sostituì al comando della brigata, forte in quel momento di quasi mille unità». Una tragedia e un crimine liquidati con la riduttiva espressione ‘un drammatico confronto politico’. Un perfetto esempio del silenzio calato a forza da oltre sessant’anni sui delitti commessi nel campo della Resistenza. Sì, perché il capo partigiano Riccardo Fedel, nome di battaglia ‘Libero’, fu estromesso dal comando e liquidato brutalmente, ucciso insieme alla sua compagna Zita Chiap e diffamato anche dopo la morte. Tanto che il suo nome non compare nemmeno nell’elenco dei caduti della Resistenza.Riccardo Fedel era un militante comunista di Gorizia, nato nel 1905, che l’8 settembre 1943 lasciò la divisa dell’esercito italiano e divenne partigiano in Romagna, animando la prima formazione della Resistenza in montagna. Insofferente alla disciplina di partito e alle direttive dei comandi, si mise in urto coi capi del Pci e specialmente con Ilario Tabarri, un ‘mastino’ che aveva combattuto in Spagna e professava uno stalinismo inflessibile. Libero segnò così il suo destino. Andava tolto di mezzo, a qualunque costo. Fu destituito e accusato di essersi impossessato illecitamente di una somma paracadutata dagli alleati. Fu cacciato, poi braccato e infine catturato. Non si sa esattamente dove sia stato ucciso, ma è certo che la sua condanna — esibita dopo la guerra — è un falso. Così com’è falsa l’accusa di essere stato un informatore dei fascisti. Le battaglie dei familiari e dei ricercatori storici gli hanno reso la dignità, ma i ‘Guardiani della memoria’ — come dice Pansa — non gli hanno ancora restituito l’onore e soprattutto la verità.
Emanuele Chesi

Intervista a Giampaolo Pansa

LA TRAGEDIA di Libero (Riccardo Fedel), primo comandante del Gruppo Brigate Romagna (poi 8° Brigata Garibaldi) fatto uccidere dai nuovi comandanti di brigata che lo avevano prima denigrato e poi estromesso, è stata portata all’attenzione nazionale dall’ultimo libro di Giampaolo Pansa «I gendarmi della memoria». L’editorialista dell’Espresso, una delle più importanti firme del giornalismo politico italiano, è uno storico di formazione. Nato nel 1935 a Casale Monferrato e laureatosi nel 1959 con una tesi sulla guerra partigiana tra Genova e il Po, è stato allievo di Guido Quazza e Alessandro Galante Garrone. Ha scritto numerosi libri ma con gli ultimi — dal ‘Sangue dei vinti’ a ‘Sconosciuto 1945’ — ha suscitato un aspro dibattito sollevando il velo su tragedie ed eccidi della guerra civile e dell’immediato dopoguerra.
Nel suo ultimo libro «I gendarmi della memoria» molte pagine sono dedicate ad episodi cruenti avvenuti nel periodo 1945-48 in Emilia. Per la prima volta porta però alla ribalta nazionale la figura di Libero. Qual è l’importanza di questo caso?
PANSA «Il merito di aver scoperto e ricostruito la storia di Libero va tutto all'avvocato Natale Graziani. Lo ringrazio anche qui per avermi concesso di utilizzare la sua straordinaria ricerca. Questa vicenda è un esempio delle ‘zone d'ombra’ che ancora esistono nella storia della Resistenza italiana, come aveva detto un anno fa il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Cercare di illuminarle non vuol dire diffamare la guerra partigiana, come strillano i ‘Gendarmi della Memoria’. Ma significa restituire a quella tragica fase della nostra storia nazionale la sua realtà, il suo dramma e anche la sua umanità lacerata».
La vicenda di Libero è emblematica dei conflitti e delle contraddizioni all'interno del movimento partigiano?
«Da tempo, nei miei libri parlo di tante piccole Porzus che dovrebbero essere raccontate. Quasi tutte hanno la stessa origine: il predominio del Pci sugli altri partiti antifascisti e la strategia rivoluzionaria delle formazioni comuniste. Ormai, questa mi sembra una affermazione quasi banale. Però c'è ancora molta gente, a sinistra, che non vuol sapere e non vuol vedere. Anche questo è uno dei motivi della decadenza delle tante sinistre nate dal dissolvimento del vecchio Partitone Rosso».
Per l'altro protagonista della vicenda, Ilario Tabarri ‘Pietro’, detto ‘lo spagnolo’, lei ha parole dure. Chi era Tabarri?
«Non mi pare di aver scritto parole dure su Tabarri. Ho tentato di raccontarlo nella sua verità storica. Del resto, basta leggere i suoi scritti per capire che lo Spagnolo era il classico quadro comunista del Comintern. Un uomo di certo coerente e coraggioso, ma del tutto schiavo della propria ideologia».
Il dramma di questa vicenda sta nel fatto che dopo 63 anni non si vuole riconoscere fino in fondo l'onore a Libero e nemmeno dire al figlio Luciano Fedel (che è rimasto legato alla sinistra nonostante tutto) dove è stato ucciso e sepolto il padre!
«Di drammi simili a quelli di Libero è piena la storia della Seconda guerra mondiale e anche della nostra Resistenza. Le tracce di quella fase storica persistono. Il silenzio non giova a nessuno. La verità è l'unica legge alla quale uno storico deve obbedire. Tanto più se è un dilettante come me».
(intervista di Oscar Bandini)

venerdì 16 novembre 2007

E i polacchi conquistarono Predappio

nella foto: soldati polacchi a Predappio nel 1944


di Emanuele Chesi
«MENTRE ABBANDONIAMO l’ospitale città di Forlì porgiamo a Dio la preghiera più calda per la libertà della oppressa Polonia e la prosperità dell’Italia»: così recita l’iscrizione della lapide posta in San Mercuriale dai militari polacchi della Divisione Kresowa. I soldati che avevano risalito la penisola combattendo valorosamente da Montecassino a Ancona e su fino a Bologna, lasciarono ufficialmente Forlì il 15 novembre 1947. Il Giornale dell’Emilia il giorno dopo riportava la cronaca delle celebrazioni presiedute dalle autorità civili, dal comandante polacco Piatkowski e dal vescovo mons. Rolla, con queste parole: «Dopo il saluto agli ultimi reparti polacchi in partenza, qualcosa, oltre il clamore, è rimasto, qualcosa che resterà nel cuore della città romagnola e dell’Italia, qualcosa di grande, che resterà nella storia, e qualcosa di piccolo ma di estremamente importante che resterà nella vita».

I SOLDATI POLACCHI, dopo un primo momento di diffidenza per la ‘città del Duce’, si erano infatti ambientati al meglio in Romagna. Scontata l’ostilità (ricambiata) verso i comunisti, i cattolicissimi polacchi avevano trovato da noi una seconda patria. E molti — il Giornale dell’Emilia dice addirittura settemila — avevano addirittura trovato moglie. «Bimbi paffuti sorretti da braccia polacche ed italiane»: questa l’immagine scelta dal cronista dell’epoca, Arnaldo Bueri, per sottolineare il legame particolare sorto a cavallo della tragedia bellica. Un legame che si è perpetuato negli anni grazie alla vivace comunità italo-polacca forlivese e all’associazione dei reduci.

L’ARMATA polacca creata dal generale Anders era nata nel 1942 in Iraq: lì si erano raccolti i patrioti scampati all’occupazione nazista e gli ex militari liberati dai lager sovietici su pressione inglese, dopo il fallimento dell’alleanza tra Hitler e Stalin. Inviati in Italia all’inizio del 1944 (ma altri contingenti combatterono con gli Alleati in Africa e poi in Normandia), i soldati polacchi si erano coperti d’onore tanto da meritare il riconoscimento simbolico della ‘conquista’ di Predappio, il 24 ottobre 1944, nell’anniversario della Marcia su Roma. Nel 1939 Mussolini aveva salutato l’invasione nazista con un entusiastico «La Polonia è liquidata». Cinque anni dopo un ufficiale di Anders scrisse nel registro della visite della casa natale del Duce: «La Polonia non è liquidata!».

IN ROMAGNA i polacchi presero parte ai combattimenti più cruenti, pagando un duro tributo di sangue. Il loro apporto alla liberazione delle nostre terre fu fondamentale. E non sempre gli è stato riconosciuto nella giusta forma.

LE CERIMONIE di commiato del 15 novembre 1947 furono «brevi e sobrie», scrive ancora il Giornale dell’Emilia. Nella chiesa di Santa Lucia venne officiata una funzione religiosa presieduta dal cappellano polacco Adalberto Rolek, alla presenza del vescovo di Forlì. Il legame tra l’Italia e la Polonia (evidenziato addirittura nelle strofe dei due inni nazionali) venne esaltato con la deposizione di una corona d’alloro alla lapide, sotto il portico del Municipio, che ricorda il sacrificio di Francesco Nullo, l’eroe forlivese caduto per la libertà della Polonia nel 1863. E per i polacchi, che si avviavano a tornare in un paese ormai sotto il tallone di ferro sovietico, non era certo secondario ricordare la lotta per l’indipendenza dalla Russia.

CONCLUDENDO le cerimonie con un breve discorso, il colonnello Piatkowski rese omaggio ai quattromila morti dell’Armata polacca in Italia. Il coro dei soldati del 2° Corpo che intonavano l’inno nazionale suggellò la solennità del momento. «Fuori la nebbia si scioglieva in una pioggerella fitta fitta — racconta il cronista del Giornale — E sembrava che facesse lustrare i volti anche agli ultimi ufficiali del 2° Corpo polacco immobili sull’attenti, al riparo del portico».

giovedì 15 novembre 2007

Arditi e fieri


Arditi e fieri, valle del Savio, 1941

venerdì 9 novembre 2007

Novembre '44: strage all'ospedale di Forlì


manifesto di propaganda della Repubblica Sociale Italiana




VENT’ANNI di dittatura, una guerra sciagurata e terribile, l’alleanza con Hitler e la persecuzione degli ebrei. All’indomani della liberazione, i fascisti vennero chiamati in massa sul banco degli accusati di un tribunale informe, cieco e sanguinario. Che spesso risparmiò i grandi colpevoli e invece si accanì contro i deboli e anche contro gli innocenti. Non c’è bisogno di polemiche sul revisionismo per bollare le atrocità che, a guerra finita, macchiarono anche la nostra terra. Gianfranco Stella, che ha dedicato parecchi libri agli eccidi partigiani in Romagna, parla di una quarantina di morti all’indomani della liberazione di Forlì e oltre 160 morti in totale nella provincia di Forlì-Cesena tra il ’44 e il ’45. Dati affidati più alla memoria che a un computo scientifico che non c’è mai stato.

UNO DEGLI ECCIDI più sconcertanti è senza dubbio quello avvenuto all’ospedale di Forlì nelle prime ore della liberazione della città. Una decina di soldati e simpatizzanti fascisti ricoverati (per ferite di guerra ma anche per semplici malattie o incidenti) vennero trucidati in spregio a qualsiasi norma del diritto di guerra. «Da confidenze che mi sono state fatte da vecchi partigiani — afferma Vittorio Dall’Amore, consigliere provinciale di Alleanza nazionale — non si trattò però di atti preordinati da parte di reparti combattenti scesi dalla montagna. E’ più probabile che abbiano agito partigiani dell’ultim’ora: personaggi che con questo eccidio volevano accreditarsi come ‘patrioti’».
Le famiglie delle vittime per anni si sono rinserrate in un doloroso silenzio e le celebrazioni della fine della guerra hanno sempre impietosamente dimenticato quell’evento tragico. Tutto è rimasto legato al pietoso ricordo di mogli e figli. Come Vera Zangari che il 10 novembre 1944 pianse la scomparsa del padre. «Indelebile è la memoria di quel lontano giorno — racconta — e il dolore lacerante è ancora dentro di noi, compagno della nostra vita di orfani, mai consolato».
«Eravamo quattro figli: tre femmine e un maschietto di nove anni — prosegue — Avevamo tanto bisogno di nostro padre, ma ce lo hanno tolto, scaricandogli un mitra in pieno petto, mentre giaceva inerme, immobile e ingessato per un incidente, in un letto sistemato in cantina, rifugio possibile per difenderci dagli attacchi aerei inglesi». Guglielmo Zangari era stato ricoverato al Morgagni per un incidente stradale: era stato travolto da un’auto tedesca ed era stato ingessato. Non aveva incarichi militari o di partito particolari, ma la sua era una famiglia notoriamente fascista. Sapeva di essere nel mirino e per questo aveva chiesto ai familiari di riportarlo a casa, in via delle Torri. Ma tre partigiani lo andarono a cercare proprio lì, forse dopo essere passati dall’ospedale.
«Noi più piccoli abbiamo sentito gli spari e visto tre giovani partigiani (in divisa) scappare di corsa — racconta ancora la donna — Avevano ‘giustiziato’ un uomo onesto, un cittadino che amava la Patria, un bravo padre di famiglia, che ci aveva educate a rispettare gli altri nel nome della giustizia e della libertà di tutti. La sua morte è passata sotto un tragico silenzio. Il passaggio del fronte, il senso di solitudine e di abbandono in quel lungo inverno sconvolto da truppe straniere ci riempivano di paura. Era lo sgomento di giovani vite private di ogni speranza per la perdita di un padre affettuoso, guida e sostegno per il loro cammino ancora da intraprendere».

«L'ANNO SUCCESSIVO e altri anni ancora — conclude Vera Zangari — hanno segnato la fine misteriosa e assurda di tanti altri uomini, giovani o padri di famiglia, rei di aver aderito al fascismo in cui avevano creduto per la forza di ideali sociali e nazionali. Ci avevano creduto, se ne erano nutriti e li avevano vissuti in piena coscienza e onestà. Barbaramente sono stati eliminati come delinquenti, uccisi a sangue freddo da giudici spietati, incapaci di sentimento umano, imbevuti di una ideologia perversa che prendeva a modello le innumerevoli uccisioni eseguite nella Russia di Lenin e di Stalin. Questa è storia, verità che deve farci riflettere e guidare la nostra vita, senza lasciarci fuorviare da inganni e menzogne».

mercoledì 7 novembre 2007

'Benito, sono anch'io un voltagabbana'



di E
manuele Chesi

C’ È CHI GIURA che in una foto sfocata dell’assalto degli anticlericali forlivesi alla statua della Madonna, sfrattata dalla piazza per far posto a Saffi, accanto a uno scatenato giovane Mussolini spicchi proprio lui, Aldo Vittori, meglio noto come E zop ad Vitori. Era il 1909 e col suo bastone nodoso picchiava come un forsennato contro la statua della Vergine, impegnato in una gara blasfema con l’amico Benito. Del resto sul biglietto da visita sfoggiava il titolo di cui andava più fiero: sbranatore del clero.
Aldo Vittori è uno di quei personaggi che racchiudono nella loro esistenza l’anima di una città e nei loro atteggiamenti ne distillano i caratteri, anche quando sono del tutto contraddittori. E così la sua vicenda biografica diventa presto epopea, arricchita di mille aneddoti di incerta veridicità ma di indubbio fascino.

IL SOPRANNOME gli veniva direttamente dalla sua condizione di poliomelitico dalla nascita. Sciancato, si diceva allora, in tempi poco propensi al politically correct. E lui aveva reagito con rabbia e impeto alla sua menomazione fisica: non aveva l’aria di voler essere compatito, anzi andava all’attacco, aggrediva il prossimo. E i religiosi in particolare. Da anarchico e rivoluzionario convinto, figlio di un capitano garibaldino, si faceva vanto di un anticlericalismo senza sconti. Quando trascinava le sue gambe lese per il centro di Forlì e intravedeva una tonaca, roteava in alto il bastone e lanciava grida irripetibili. Daniele Gaudenzi in ‘Album di famiglia’ gli attribuisce l’invenzione di una frase diventata lo slogan degli anticlericali forlivesi: «Tira la rete, ché passano gli storni!», riferita al corteo di seminaristi in sottana nera che venivano condotti in giro per il centro cittadino sotto la guida dei superiori. E il leader romagnolista Stefano Servadei racconta che un giorno, attraversando piazza Saffi coperta dalla neve, E zop ad Vitori incrociò un frate tutto intirizzito e coi piedi scoperti e paonazzi nei poveri calzari. Impietosamente gli sibilò dietro: «Eh fraticello, se non esiste il paradiso hai preso proprio una bella fregatura!». E l’espressione originale in dialetto fu decisamente più colorita e con un’oscena allusione sessuale.

ORAFO di professione, Vittori abitava in via Guerrini ed era, come tanti forlivesi, un assiduo frequentatore di osterie. Tra progetti rivoluzionari e boccali di vino, tirava tardi in una bettola di piazza XX Settembre. E con un tasso alcolico da schiantare un etilometro tornava a casa per via Giorgio Regnoli, allietando gli onesti cittadini con una filastrocca di scurrilità ed esaltazioni delle scarse virtù delle pie donne forlivesi. Amante del melodramma, frequentava il teatro comunale, ma anche lì non riusciva a frenare il suo spirito di contestatore e spesso dava in escandescenze dal loggione. Tanto che per un certo periodo gli fu addirittura vietato l’ingresso.
Negli anni Venti, mentre l’ex compagno rivoluzionario Benito diveniva dittatore e faceva pace col Papa, anche Vittori rinnegò improvvisamente il suo anticlericalismo. Neanche a dirlo, la ‘conversione’ fu tutto merito di una pia signorina che riuscì incredibilmente ad addolcire il suo carattere. Si racconta che Vittori, pur di non perdere l’occasione di farsi una famiglia (era in là con gli anni e non aveva più parenti), accettò addirittura di sposarsi in chiesa. Ma pose la condizione che la cerimonia avvenisse alle sei del mattino, in una chiesetta fuorimano e con un prete discreto. Ma la notizia si diffuse lo stesso, gettando lo sconcerto tra le fila degli anticlericali e il povero Vittori fu accolto all’uscita dalla chiesa da una gragnuola di insulti, i più leggeri dei quali furono traditor e vigliac.

ERA ORMAI passato dall’altra parte, quella dei benpensanti e degli amanti dell’ordine costituito (come l’amico Benito...), ma evidentemente qualcosa gli rodeva ancora dentro. Nel febbraio 1929, nel giorno della conciliazione tra Stato e Chiesa, si ritrovò a passare in piazza Saffi e si fermò a chiacchierare con alcuni amici. Si discuteva della risoluzione del problema del potere temporale e lui, alludendo alla piazza fredda e innevata, se ne uscì con una battuta delle sue: «Luitar i se tnù e puter, a nuitar ia lascé e tempurel» (loro si sono tenuti il potere e a noi hanno lasciato il temporale).

MA IL MOMENTO cruciale della sua epopea doveva ancora arrivare. Anzi, chissà se è mai arrivato veramente. Anche se nel racconto popolare è ormai una verità storica. Comunque: si dice che durante una visita ufficiale di Mussolini alla sua vecchia città, Vittori indossò un vecchio cappotto rivoltato e si piazzò in mezzo alla strada, bloccando il corteo guidato dall’auto del Duce. E prima che le guardie lo potessero agguantare, guardando negli occhi il vecchio rivoluzionario socialista, urlò: «Fat curag Benito, aiò vulté gabana neca me!», riferendosi al matrimonio in chiesa e al concordato con la Santa Sede. Pare che il Duce lo riconobbe al volo, sorrise, e con un gesto della mano fermò i fascisti forlivesi già pronti a dargli una sonora lezione. «Ed anche la circostanza — nota Servadei — evidenzia due positive virtù romagnole: la solidarietà nelle trasgressioni e la persistente amicizia degli interpreti, anche con ruoli personali notevolmente mutati».
In età più matura Aldo Vittori cambiò però veramente vita. Insieme alla moglie si recava a messa alla chiesa del Suffragio, diventò amico di don Pippo e, intrapresa la professione di odontotecnico, si dedicò all’assistenza di poveri e bisognosi, collaborando con monache e frati che una volta vedeva come fumo negli occhi! Ma sulla sua figura la battaglia politica non era ancora finita: i cattolici raccontano che si spense nel 1950 a settant’anni confortato dalla fede e assistito da don Pippo, invece i laici rivendicano l’ultimo suo gesto teatrale e dissacratore. «In punto di morte l’antico sbranatore del clero si risvegliò - assicura Servadei — e ottenne un funerale senza prete alla mattina presto, un rito non insolito per i romagnoli dell’epoca
».

1957: il 'ritorno' di Mussolini a Predappio




di Emanuele Chesi


LO SPETTACOLO di ‘macelleria messicana’ che andò in scena a Piazzale Loreto aveva una sua orrenda logica: la dannazione del corpo del Duce che era stato esaltato per vent’anni come l’immagine stessa del regime fascista. L’Italia che voltava pagina ebbe però bisogno di altri dodici anni per metabolizzare il sacrificio rituale del corpo lungamente amato (e odiato). Nell’immediato dopoguerra le spoglie del dittatore erano ancora considerate un’arma politica potente, fin nel nome del Movimento sociale italiano, il cui acronimo Msi veniva reinterpretato come ‘Mussolini sempre immortale’. Così soltanto il 30 agosto 1957, giusto cinquant’anni fa, i poveri resti di Benito Mussolini furono restituiti alla famiglia e sepolti a Predappio, nella cripta di San Cassiano in Pennino.

IL PERCORSO del ritorno a casa fu piuttosto accidentato. Dopo l'esecuzione a Giulino di Mezzegra il 28 aprile 1945 e lo strazio di Piazzale Loreto, il corpo di Benito Mussolini venne in un primo tempo interrato nel cimitero di Musocco a Milano. In assoluto anonimato, segno evidente dell’imbarazzo delle nuove autorità. Si intuiva forse il peso politico della salma ma nessuno se la sentiva di trarne le estreme conseguenze, come avrebbero poi fatto russi e americani incenerendo i resti dei gerarchi nazisti giustiziati a Norimberga.

PER I FASCISTI sconfitti ma non certo domi quel corpo era infatti ancora simbolo potente. E così nella notte tra il 22 e il 23 aprile 1946 (la notte di Pasqua: un altro simbolo evidente di rinascita) un terzetto di giovani reduci della Rsi, guidato da Domenico Leccisi, individuò la tomba e trafugò facilmente la salma del Duce. L'impresa fu per alcuni aspetti grottesca (scavalcando un muro di cinta i tre ‘persero' alcune falangi del cadavere)ma ebbe un effetto politico fortissimo. La rivendicazione del gesto da parte del fantomatico ‘Partito fascista democratico’ scatenò le preoccupazioni dell’ancora incerto potere democristiano e gli eterni sospetti di controrivoluzione dei socialcomunisti.
Per un curioso gioco del destino a braccare i ‘ladri’ del corpo del Duce fu lo stesso questore Agnesina che durante il Ventennio aveva guidato la Presidenziale, la scorta di Mussolini. E che non aveva mosso un dito quando, il 25 luglio 1943, il re aveva ordinato l’arresto a tradimento del dittatore. Agnesina evidentemente sapeva dove andare a cercare e nel giro di cento giorni arrestò Leccisi e i camerati, coinvolti anche in un giro di banconote false. E la salma di Mussolini? I poveri resti del duce, ripiegati come una logora bandiera e infilati in una cassettina di legno, erano stati affidati da Leccisi a un frate francescano molto noto, Enrico Zucca, di spiccate simpatie fasciste. Attraverso padre Alberto Parini (fratello dell'ex podestà fascista di Milano) le spoglie erano state infine nascoste nella Certosa di Pavia.

LE AUTORITÀ non sapevano però bene come gestire politicamente la faccenda. Quel corpo faceva ancora paura. Si decise allora di temperoggiare ulteriormente e lasciare la salma in custodia ai frati, col vincolo del silenzio. Ma l’opinione pubblica allora seguiva ancora morbosamente tutte le vicende che riguardavano rivelazioni sulla vita privata del Duce, non poteva certo dimenticarsi del suo corpo. L’ubicazione della ‘tomba segreta’ di Mussolini continuava infatti ad appassionare gli italiane e a costituire il tema di presunti scoop e (inverosimili per definizione) leggende metropolitane. Come quella che indicava la soluzione del giallo nella tomba di tal Bruno Misefari (notare le iniziali evocative) al cimitero del Verano. Per qualche tempo divenne meta di pellegrinaggi e piccole adunate di nostalgici, fin quando i familiari irritati non chiarirono che il defunto era realmente esistito e per di più era stato un fiero antifascista persguitato dal regime. Si sfiorò il ridicolo e il blasfemo, infine, quando un reporter d’assalto praticò un foro nell’altare della chiesa di Montepaolo a Dovadola, dove si diceva che fossero occultati i resti del Duce. L’incauto Indiana Jones rimediò solo una denuncia per danneggiamenti.

IL MISTERO si sciolse alla fine nel 1957. E la soluzione del giallo politico fu opera di un fine politico democristiano, predappiese di nascita, Adone Zoli. Alla testa di un governo monocolore appeso alla benevolenza della destra, Zoli incassò l’appoggio occulto del Msi in cambio, tra l'altro, del ritorno di Mussolini a Predappio. Ma l’intera operazione venne portata a termine con grande tatto diplomatico coinvolgendo anche l’amministrazione comunale predappiese.

PER IL ‘VIAGGIO' da Milano a San Cassiano in Pennino _ curato sempre dal questore Agnesina _ si era pensato al giorno di ferragosto del ‘57; in modo da approfittare del vuoto delle ferie estive. Ma una serie di intoppi e ritardi fecero slittare la data fatidica al 30, facendo svaporare in buona parte anche la cortina di segreto che si era tentato di stendere sull’operazione. La cassa coi poveri resti del Duce viaggiò in incognito sotto il sedile posteriore di un’auto americana di grossa cilindrata. Arrivò a Predappio attorno a mezzogiorno, accolta da poche persone vigilati da un drappello di agenti di pubblica sicurezza. «Fu quasi un affare i famiglia, non una cerimonia politica _ ricorda Vittorio Dall'Amore, allora giovane dirigente del Msi e molto vicino alla famiglia Mussolini _ C'era Donna Rachele, il conte Vanni Teodorani, Pino Romualdi e pochi altri, meno di una decina». Alcuni fotoreporter riuscirono però a immortalare i momenti cruciali per i settimanali patinati dell’epoca.

FU ALLESTITA una camera ardente e il primo vero pellegrinaggio ci fu il giorno dopo, con l'arrivo di circa tremila persone e con alcuni dirigenti nazionali del Msi tra i quali Giorgio Almirante. Per il partito fu un evento di grande significato sentimentale e politico insieme: per molti il simbolo del Msi rappresentava proprio la fiamma sulla bara di Mussolini. Iniziò così il rito dei raduni neofascisti a Predappio, dapprima osteggiati dalle autorità (su disposizione del ministro dell'interno Tambroni era vietata la camicia nera e non pochi erano costretti a recarsi al cimitero in canottiera per evitare la denuncia), poi tollerati se non proprio agevolati, in parallelo con uno spostamento in senso conservatore della politica nazionale. Predappio divenne così la ‘capitale’ del neofascismo, anche se i vertici del Msi, Almirante per primo, non amavano mettersi in mostra davanti alla tomba di Mussolini. Il periodo di fuoco scattò a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Il confronto tra gli estremisti si trascinò fino a Predappio e alcune formazioni extraparlamentari come Lotta Continua si facevano vanto di ostacolare fisicamente i pellegrinaggi fascisti. Blocchi stradali, sassaiole, bastonate, addirittura una bomba nella cripta segnarono quell’epoca grondante di furori ideologici. Poi, pian piano, il nostalgismo è diventato nostalgia e turismo.

nella foto: Rachele Mussolini davanti alla cassa coi resti del Duce
(foto non riproducibile senza autorizzazione)

1945: pire funebri indù al cimitero di Forlì

Tra il 1945 e il 1946 davanti al cimitero monumentale di Forlì vennero allestite pire funbri per cremare i corpi di 769 soldati indiani dell'esercito britannico. Accanto al monumento commemorativo degli indù è sorto il cimitero indiano dove sono sepolti 495 caduti di religione musulmana.

di Emanuele Chesi

Abhe Ram aveva 23 anni e veniva dalla zona di Meerut, la città nei pressi della capitale Delhi famosa per la rivolta del 1857. Zail Singh era più vecchio di appena due anni ed era originario del distretto di Ludhiana nel Punjab, nell’India settentrionale. Sono il primo e l’ultimo dei 769 caduti dell’esercito indiano ricordati nel cimitero di guerra di Forlì, proprio davanti al cimitero monumentale. Materialmente le loro tombe non ci sono — ci sono invece ben 495 inumazioni di altrettanti soldati indiani prevalentemente di religione musulmana — perché i caduti indù (come Ram) e sikh (come Singh)vennero cremati secondo i dettami delle loro religioni. Quasi cinquecento pire funebri che arsero a Forlì tra il 1945 e il 1946. A ricordare il loro sacrificio per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti c’è un monumento commemorativo. Invece a ricordare quelle singolari cerimonie che destarono per mesi la curiosità dei forlivesi c’è rimasto solo un uomo: Salvatore Marino Pari.
«AVEVO 18 ANNI ed era appena finita la guerra, almeno dalle nostre parti — ricorda Salvatore Marino Pari, classe 1926 — Saranno stati i primi mesi del 1945, non ricordo bene. I soldati inglesi che avevano occupato Forlì si erano installati all’ex Collegio aeronautico in piazzale della Vittoria e lì mi reclutarono per lavorare con loro. Fu una gran fortuna perché pagavano bene e allora c’era parecchia miseria in giro».
Salvatore venne così aggregato a una squadra di operai forlivesi che, guidati da impettiti ufficiali britannici, cominciarono a setacciare i campi di battaglia alla ricerca dei caduti. «Partivamo alla mattina col camion e giravamo l’Italia in lungo e in largo — prosegue l’anziano — Siamo stati nella zona di Ancona e poi a nord verso Treviso e in tanti altri posti. Dovevamo recuperare i corpi dei soldati morti e spesso ci toccava anche scavare. Era un lavoro duro e difficile, perché bisognava ricomporre i corpi e identificarli. Gli ufficiali inglesi erano inflessibili: non bisognava lasciare indietro neanche una falange!». I britannici dedicavano la stessa pietosa cura alle salme dei caduti della madrepatria e a quelli del variegato esercito coloniale, tra i quali gli indiani.
«NOI FORLIVESI eravamo in diciassette — ricorda ancora — e io ero tra i più giovani. Oggi sono rimasto solo io, purtroppo. Mi pare che uno tra gli ultimi ad andarsene sia stato Fagnocchi, quello che tanti anni fa gestiva il posteggio delle biciclette vicino alle Poste».
Radunato il loro triste carico, gli operai forlivesi partivano alla volta del cimitero sulla Ravegnana. Lì, accanto alle tombe dei soldati di religione musulmana, venivano approntati i riti per gli indù e i sikh, una religione monoteista minoritaria diffusa soprattutto nel nord dell’India.
«GLI UFFICIALI inglesi ci avevano insegnato come fare — dice Salvatore Marino Pari — Formavamo una grande catasta quadrata di legname e vi adagiavamo sei corpi. Poi li cospargevamo con grosse quantità di grasso liquido contenuto in taniche. A quel punto accendevamo il fuoco e il falò divampava istantaneamente con alte fiamme. Non c’era odore di morte, era un rito estremamente semplice e pulito».
Mentre si alzavano lunghe volute di fumo, lungo la Ravegnana, dalla parte del cimitero monumentale si assiepavano i curiosi. «Ma gli inglesi li tenevano lontani — prosegue — e tutta la zona del rito era recintata e sorvegliata dai soldati».
ESAURITO IL ROGO, gli ’officianti’ forlivesi dovevano ancora completare la parte fondamentale del rito funebre dell’induismo: «Raccoglievamo le ceneri e le avvolgevamo con cura in grosse coperte. Poi si ripartiva in camion verso Porto Corsini: lì le ceneri venivano sparse nell’acqua. Facevamo tutto in silenzio per rispetto di quei poveri ragazzi morti lontano da casa. Ci sembrava naturale e doveroso farci il segno della croce».
SALVATORE PARLA a fatica dopo una dura vita come decoratore di chiese, tappezziere e imbianchino che ha conosciuto le durezze del dopoguerra e anche l’emigrazione in Francia per quindici anni, ma dopo aver snocciolato i suoi ricordi e ripercorso quella strana avventura di cerimoniere per i funerali indù, ha ancora un lampo negli occhi e conclude: «Quando verrà la mia ora, vorrei essere cremato così anch’io. Vorrei anch’io che le mie ceneri venissero sparse al vento per dissolvermi nella natura. Cosa c’è di più pulito e di più bello?».


martedì 6 novembre 2007

Quando il fascista Arpinati salvò il socialista Nanni


di Emanuele Chesi
Ottobre 1922. Mentre i fascisti marciano su Roma e si impossessano del potere, uno dei principali collaboratori di Mussolini, l’ex ferroviere anarchico Leandro Arpinati da Civitella, rinuncia a godersi la gloria della sfilata davanti al re per piangere la morte di un camerata. E’ all’obitorio della Certosa di Bologna a vegliare la salma di Giancarlo Nannini, un amico fraterno che onorerà dando il suo nome alla figlia Giancarla. Il romagnolo Arpinati è il ‘ras’ del fascismo bolognese. Con ferocia e violenza le sue squadracce hanno schiacciato sindacati, socialisti e comunisti. Ma proprio alla vigilia della vittoria il fido Nannini è rimasto sul campo. Mentre è assorto nei pensieri davanti alla salma, un suo vecchio conoscente di Santa Sofia entra trafelato e gli sussurra qualcosa all’orecchio. Arpinati non ci pensa due volte: corre fuori dall’obitorio, raduna un gruppo dei suoi temibili squadristi e parte per la Romagna.
Assedio alla caserma
Nello stesso momento un’altra squadra di picchiatori fascisti, questa volta provenienti dalla Toscana, assedia la caserma dei carabinieri di Rocca San Casciano. All’interno quattro militi con le mani sui moschetti d’ordinanza temono il peggio. Spesso carabinieri e polizia hanno ceduto il passo agli squadristi se non simpatizzato apertamente con loro in odio ai ‘rossi’. Ma non sono mancati neanche scontri e sparatorie quando le forze dell’ordine hanno ‘preteso’ di far rispettare la legge. Come stavolta. I carabinieri, comandati da un coraggioso maresciallo, hanno preso in consegna il sindaco di Santa Sofia, l’avvocato socialista Torquato Nanni, strappandolo letteralmente dalle mani dei fascisti fiorentini, tra i più sanguinari d’Italia. Li comandava Uberto Santini, braccio destro del ‘barone nero’ Dino Perrone Compagni. Ce l’avevano a morte con Nanni perché qualche tempo prima, in qualità di consigliere provinciale (allora quell’area di Romagna faceva ancora parte della provincia di Firenze)aveva commemorato un comunista vittima dei fascisti, pur parlando apertamente della necessità di una ‘pacificazione’ tra le fazioni.
Soccorso nero
I fascisti toscani si erano lamentati della vicenda con Mussolini stesso, sapendo che era un vecchio amico di Nanni — ai tempi in cui il Duce era socialista... — e in pratica avevano chiesto il via libera alla sua eliminazione. Mussolini se l’era cavata con questa risposta: «E’ ben vero che il Nanni fu mio amico e collaboratore all’Avanti e al Popolo d’Italia. Ma se oggi si comporta da nemico dovete trattarlo come tale». Così scattò la punizione punitiva. I toscani piombarono in casa di Nanni a Santa Sofia, lo sequestrano e gli devastarono l’ufficio. Poi lo portarono in Municipio dove misero un teschio sulla sua scrivania. Lo stavano trascinando per la piazza del paese, certo con intenzioni poco amichevoli, quando vennero intercettati dai carabinieri. Che una volta tanto non stettero a guardare. Il sindaco venne così salvato per il rotto della cuffia. Ma il pericolo non era ancora passato. La squadra di Santani non ne voleva sapere di perdere la ‘preda’ e pretese dai carabinieri che gliela rendessero. Il maresciallo fu allora costretto a ripiegare in caserma, in attesa di soccorsi. Che non arrivarono però dalle altre caserme dell’Arma.
Con una corsa in camion a rotta di collo per le strade sterrate dell’epoca, il manipolo di fascisti bolognesi guidato da Arpinati raggiunse Rocca San Casciano appena in tempo. Il ‘ras’ dello squadrismo emiliano che di lì a poco sarebbe diventato sottosegretario agli Interni — in pratica il braccio destro di Mussolini nella gestione dell’ordine pubblico — non aveva abbandonato il vecchio amico Torquato anche se si trovavano su opposte sponde politiche.
Sfida in piazza
Sulla piazza di Rocca San Casciano si affrontarono allora a muso duro due schiere di fascisti, tra i più temuti e determinati d’Italia. Volarono insulti, spintoni e anche qualche cazzotto. Per poco i contendenti non misero mano alle armi ma alla fine Arpinati si impose. Nanni fu liberato e la singolare spedizione fascista in soccorso di un leader socialista si concluse a casa dell’avvocato con una cena romagnola bagnata da epiche bevute di sangiovese.
Il ‘salvataggio’ di Nanni è stato spesso spiegato come un gesto d’amicizia non inusuale in tempi in cui accanto al furore ideologico restavano però i legami personali — basti pensare al singolare rapporto tra Mussolini e il fondatore del partito comunista Nicola Bombacci oppure tra lo stesso Duce e il leader socialista Nenni — ma nella sua monumentale biografia su Mussolini, lo storico Renzo De Felice ha avanzato anche un’altra ipotesi. Nanni e Arpinati erano infatti due fautori della linea di pacificazione tra fascisti e socialisti, forse un’alternativa alla presa del potere violenta e allo strangolamento delle opposizioni. Questa linea, proposta da Mussolini stesso e vista con interesse da una parte dei socialisti, era stata però bocciata clamorosamente dai vertici del partito fascista, tanto che il ’capo’ aveva dovuto battere in ritirata sotto la pressione, tra gli altri, proprio degli squadristi toscani. Per questi ultimi dunque Nanni non era un semplice nemico socialista, era un obiettivo per tagliare l’erba proprio sotto i piedi di Mussolini.
Sangue a Malacappa
Il legame tra Nanni e Arpinati restò saldo per tutto il Ventennio fascista, quando anche le fortune del ‘ras’ tramontarono. Entrato in rotta di collisione col segretario del partito Starace, nel 1933 Arpinati venne allontanato dal potere e addirittura confinato come nemico del regime. Finì poi a gestire un’azienda agricola modello a Malacappa, nelle campagne bolognesi. Lì, in piena guerra, tesseva rischiosissime trame anti-regime col vecchio amico Nanni e col leader repubblicano Tonino Spazzoli. E proprio lì, il 22 aprile 1945, all’alba della Liberazione, l’amicizia tra Nanni e Arpinati venne affogata nel sangue di un’esecuzione ad opera di un commando partigiano. Il barbaro delitto di due nemici del fascismo rimasto per buona parte ancora oscuro.

Nella foto: da sinistra Torquato Nanni, Leandro Arpinati e il repubblicano Tonino Spazzoli,

Canto 91



"Nanni (Torquato) did 3 years with Battista


and wasn't shot till after Salò.


Threw himself in front of friend (Arpinati)


but cd/not save him."



"(Torquato) Nanni fu tre anni con Battisti


ma fucilato fu dopo Salò.


Si gettò davanti all'amico (Arpinati)


ma non poté salvarlo."


Ezra Pound, Cantos, Sezione perforatrice di roccia.