sabato 1 maggio 2010

Gastone Proli: il mio necrologio per Mussolini

Sessantacinque anni fa, in questa giornata, l’esecuzione di Benito Mussolini suggellava le convulse e tragiche fasi del ritorno dell’Italia alla libertà e alla democrazia. Un lutto per qualcuno. Così Gastone Proli, ex segretario del Msi forlivese prima della ‘svolta di Fiuggi’, pubblica oggi sul Carlino Forlì una necrologia per Benito Mussolini. Il testo recita: «Quando un popolo continua ad esaltare il clima della guerra civile, è lontano il tempo della pacificazione nazionale».

Proli, pubblicare un necrologio per Mussolini all’indomani della festa della Liberazione è una provocazione politica?
«Assolutamente no. Se lo avessi fatto il 25 aprile sarei stato sì un folle e un provocatore. Ma io non offendo nessuno, ricordo solo Mussolini e con lui tutti i caduti della guerra civile. Onoro chi ha combattuto per le proprie idee».

Indicare Mussolini come una vittima appare però come un’esaltazione del fascismo.
«E’ stata una guerra fratricida. Non tutto il bene era da una parte e non tutto il male era dall’altra. E’ insopportabile che ancora oggi si esaltino, insieme agli eroi, anche i delinquenti. E pure tanti voltagabbana. L’Italia dovrebbe prendere esempio dalla Spagna di Franco che decise di seppellire insieme nella valle dei caidos tutti i combattenti della guerra civile».

Lei si definirebbe ancora oggi un fascista?
«Non sono un nostalgico. Anche a me danno fastidio i negozi di paccottiglia e le bandiere naziste. Dico chiaramente che Mussolini era un dittatore e che il regime ha fatto gravissimi errori, anche morali come le leggi razziali. Tuttavia quell’esperienza politica va valutata in quel contesto storico, tenendo conto anche degli aspetti innovativi per la società, presenti ancora oggi. E comunque il fascismo, in quanto a vittime e orrori, non è neanche lontanamente paragonabile a nazismo e comunismo».

La destra italiana è ancora legata al fascismo?
«Il fascismo è un’esperienza passata e non più attuabile. Fini, che parlava di fascismo del Duemila appena qualche anno fa, diceva una stupidaggine. La destra italiana deve però assumersi le sue responsabilità e non può negare le sue radici, la sua storia. Per me il valore assoluto è la coerenza».

di EMANUELE CHESI

lunedì 8 marzo 2010

E Mussolini disse no alla regione Romagna

LA GRAFIA è svolazzante ed elegante insieme, s’intravede un sapiente uso del pennino, degno sicuramente delle occasioni speciali. ‘Proposta per il riconoscimento ufficiale della Romagna in regione autonoma e distinta dalla Emilia’: recita così il ‘9° oggetto’ all’ordine del giorno dell’adunanza del consiglio del Comune di Mercato Saraceno. La data è quella dell’8 febbraio 1924 e il civico consesso, presieduto dall’assessore anziano Baraghini Ugo, con l’assistenza del ‘donzello comunale’, certifica l’unanime voto favorevole alla proposta avanzata dalla Camera di commercio di Forlì. E’ il primo atto pubblico _ una vera e propria scoperta riemersa dagli archivi grazie alle ricerche di Edoardo Turci _ che testimonia la nascita dell’autonomismo romagnolo in senso politico-istituzionale, dopo l’incubazione e il lancio culturale a livello di massa patrocinato prima da Emilio Rosetti e poi da Aldo Spallicci.

LA PROPOSTA della Camera di commercio, retta allora da Ercole Galassi, facoltoso commerciante di granaglie di fede repubblicana, s’inquadra in un periodo di vivace attivismo romagnolista, probabilmente rinfocolato anche dall’attenzione che il duce Benito Mussolini dedicava alla sua terra d’origine. Il Regio decreto del 4 marzo 1923 sancisce infatti l’annessione alla Provincia di Forlì del territorio del mandamento di Rocca San Casciano, la cosiddetta Romagna Toscana fino ad allora compresa nella Provincia di Firenze. Si tratta di un riassetto complessivo del territorio provinciale che ha ovviamente una valenza di razionalizzazione ma è indubbio che Mussolini coltivi in quel frangente anche disegni politici e propagandistici più ampi. La ‘provincia del duce’ aumenta infatti il suo peso economico e la sua rilevanza territoriale, annettendo pure il Fumaiolo e le sorgenti del Tevere. Il legame tra la Romagna, Roma e i ‘destini della Patria’ è tracciato in maniera evidente a tutti.

LA CAMERA di commercio di Forlì coglie la palla al balzo e cavalca questa rinascita romagnola promuovendo verso tutti gli enti locali un’azione per il riconoscimento ufficiale della Romagna come regione autonoma. Nel rigido sistema centralistico sabaudo (il regime sta muovendo i primi passi ma non c’è ancora stata la svolta autoritaria che seguirà il delitto Matteotti) le regioni non hanno poteri autonomi, sono una mera suddivisione geografica che si porta dietro gli organi decentrati dello Stato. Ma questa assenza di rilevanza reale dell’ente regione è ancora più significativa del carattere identitario della richiesta. «Nelle motivazioni della Camera di commercio si leggono però motivi concreti che anticipano passo passo i nostri ragionamenti _ osserva Stefano Servadei, fondatore del Mar _ Il dibattito sul tema dell’autonomia era allora già vivo, animato anche in Parlamento dagli interventi dell’on. Giovanni Braschi del Partito Popolare e dell’on. Aldo Spallicci del Pri».

L’ENTE camerale affermava in sostanza che la Romagna, ingrandita e in collegamento col centro Italia, ha «caratteristiche sue proprie etnografiche, geologiche, storiche che nella realtà la distinguono dall’Emilia, di cui fa parte solo nominalmente e che è nell’interesse nazionale considerare le regioni costituite in base a criteri e elementi naturali e non già in base a criteri artificiali e amministrativi, poiché solo col primo sistema che si possono ottenere tutti quei vantaggi che derivano dallo svolgersi delle attività di un ente perfettamente omogeneo».

L’INIZIATIVA, che si muoveva come oggi a cavallo di tematiche identitarie, culturali ed economiche, raccolse consensi nei consigli comunali del territorio forlivese e cesenate ma venne ingloriosamente bocciata a Ravenna. Finché si parlava di cultura e di orgoglio campagnolo, il ‘romagnolismo’ era patrimonio comune dall’Adriatico al Sillaro, quando si passava a parlare di assetti istituzionali però cominciavano i distinguo. Roberto Balzani nel suo libro ‘La Romagna’ riporta la stroncatura senza appello da parte del Comune di Ravenna: «Non essendo fortunatamente in Italia la regione sotto nessuna forma giuridica esso non intende prestarsi neppure indirettamente a costituirla e formarla». E un giornale locale dava voce ai timori di un’egemonia politica di Forlì, sostenendo che l’espansione del «bel sito che diè i natali a Benito» avrebbe ridotto la provincia ravennate a una costolettina d’agnello col relativo osso, cioè poco più del capoluogo e un pezzetto di costa.

RESPINTA sdegnosamente dai cugini ravennati, l’iniziativa della Camera di commercio venne definitivamente affossata dal sottosegretario Acerbo che, certamente sotto dettatura di Mussolini, rispose in Parlamento alle interpellanze dei deputati romagnoli affermando che di nuove regioni non se ne parlava neppure perché il regime era centralistico e unitario. Una motivazione che poteva valere allora, osservano gli autonomisti romagnoli, ma che non ha più ragione di esistere oggi visto che il federalismo è entrato a pieno titolo nella nostra Costituzione. I timori di campanile — a partire dall’inesplorato tema del capoluogo di una futura regione romagnola — invece sono sempre quelli di un secolo fa.

Emanuele Chesi

domenica 1 novembre 2009

Rachele, la prima vittima di Mussolini?






di Emanuele Chesi

E' STATA per vent’anni la first lady del regime, e non in una posizione defilata come l’hanno dipinta l’agiografia e la memorialistica nostalgica. Per il resto della vita, prima e dopo gli anni romani, Rachele Guidi è vissuta effettivamente all’ombra di Benito Mussolini, patendone le intemperanze politiche e sentimentali da vivo e scontandone anche, incolpevole, la damnatio memoriae da morto.
NARRA la favola littoria che Rachele e Benito s’erano incrociati tra i banchi di scuola. Lui era supplente della madre — all’epoca gli incarichi nella scuola elementare erano gestiti dal Comune e il clientelismo politico era la regola... — e lei una contadinella poverissima semianalfabeta. L’incontro fatale avvenne comunque qualche anno dopo, una domenica d’autunno del 1908, sul sagrato di San Mercuriale. Lei aveva diciassette anni e faceva la serva presso una famiglia borghese; lui, già uomo fatto, era più o meno uno spiantato, tutto preso dal fuoco della rivoluzione e del socialismo (e pare anche del Sangiovese). Ma i rapporti erano ancor più ingarbugliati, perché il mitico fabbro Alessandro — rimasto vedovo dell’altrettanto mitica Rosa Maltoni che diverrà poi icona del regime — s’era accompagnato con una sua vecchia fiamma, guarda un po’ la madre di Rachele, pure lei vedova. E insieme avevano messo su un’osteria alla buona in via Ravegnana. Di lì a poco Rachele tornò in famiglia e praticamente cadde tra le braccia di Benito, anche se Alessandro non vedeva di buon’occhio la tresca. Ma Benito, sempre più preso dalla politica, andava per le spicce. Così raccontava all’amico Cesare Battisti: «Mio padre e sua madre erano decisamente contrari al nostro matrimonio e ci furono in quel torno di tempo episodi assai tempestosi... Il 17 gennaio 1910 mi unii, senza vincoli ufficiali, né civili, né religiosi, con Rachele Guidi. Prendemmo un appartamento ammobiliato in via Merenda numero uno... e vi abbiamo passato la nostra breve luna di miele. Il 1° settembre, alle tre del mattino, la mia compagna partorì felicemente una bambina, alla quale ho posto nome Edda». ‘La figlia della miseria’, così chiamavano la primogenita prediletta dal futuro duce. E gli anni forlivesi furono indubbiamente duri per Rachele, che si caricò sulle spalle buona parte delle preoccupazioni familiari, mentre il marito procedeva avventurosamente nella sua carriera giornalistico-politica.
LA SVOLTA avvenne con la direzione dell’Avanti e il trasferimento a Milano. Cessarono le preoccupazioni economiche, iniziarono (o forse si inasprirono) quelle coniugali. La lista delle avventure è lunga e incompleta: la rivoluzionaria Angelica Balabanoff che lo prese sotto la sua ala protettiva, la trentina Ida Dalser che gli diede un figlio (e lui la ricambiò più tardi facendola chiudere in manicomio), l’estrosa Leda Rafanelli proto-femminista e sedicente convertita all’Islam, la colta Margherita Sarfatti con la quale intrecciò una relazione erotico-culturale di lunga durata. Rachele sapeva e accettava. O perlomeno strepitava, s’indignava e alla fine si lasciava convincere dal marito di essere l’unica vera donna della sua vita. Nell’ascesa politica, dal socialismo al fascismo fino alla consacrazione come ‘Duce d’Italia’, Rachele fu più o meno silenziosamente al fianco del marito, interpretando quel ruolo di ’angelo del focolare’ che la cultura e la retorica del tempo richiedevano. Tra famiglia e politica, i coniugi Mussolini stabilirono una rigorosa divisione del lavoro. «Il vero dittatore in famiglia, nonostante i lineamenti delicati, gli occhi azzurri, i capelli biondi e un’aria di candore, era mia madre» ricorda Edda. Ma le testimonianze di familiari e gerarchi sono concordi: una volta raggiunto a Roma il suo amato Benito, ‘Donna Rachele’ — tale era diventata l’umile contadina romagnola — tutto fece meno che restare nel suo cantuccio a Villa Torlonia. Non si dette arie da padrona né brigò per i suoi interessi — anche se il marito la rimproverò una volta per essersi impossessata di medaglie ufficiali — ma continuò per anni a immischiarsi degli affari di Stato, nutrendo feroci antipatie per questo o quel gerarca (e finì anche per prendersela, ben prima del tradimento del 25 luglio, col genero Galeazzo Ciano). Una cerchia di dignitari, poliziotti e carabinieri facevano riferimento a lei, riportandole le scappatelle della figlia scapestrata, i maneggi dei gerarchi più infidi e anche le frequentazioni del duce dopo l’orario di lavoro.
Forse pensava di riprendersi in qualche modo l’attenzione di Benito dopo la conquista dell’Etiopia, all’apice del successo, quando gli propose il ritiro dalla scena politica: «Smettiamola, andiamocene alla Rocca. Abbiamo avuto fin troppa fortuna, la tua missione politica forse è finita, pensa un po’ anche a te e alla tua famiglia...». Ma lui, fedele al suo motto, tirò diritto. Però le cose peggiorarono anche dal punto di vista familiare. Lo dice senza mezzi termini anche il principe dei biografi mussoliniani Renzo De Felice: il duce, sempre più solo dopo la perdita dell’unico suo vero confidente, il fratello Arnaldo, si isolò sempre di più, legandosi così a una donna come mai aveva fatto. «Una sola variante c’è stata con l’età ai suoi costumi affettivi e amatori: d’essere passato dalle molte donne a una sola donna, la Petacci, amante mai riconosciuta, con guardia di carabinieri alla porta di casa, onore e sorveglianza a un tempo» disse Galeazzo Ciano al ministro Bottai, che nel suo diario commenta: «Penso a che cosa sarebbe questo Capo se avesse, tra le molte forme di coraggio che nessuno gli nega, quella di maturare in serenità e dignità».
CROLLATO il regime, Rachele affrontò col solito coraggio l’arresto del marito e gli oltraggi dei badogliani, gli anni della guerra civile e la ‘coabitazione’ a Salò con Claretta Petacci. Che gli rese l’ultimo sgarbo andando a morire a fianco dell’amato Ben. «Prego anche per lei» si limitò a dire qualche anno dopo, comunque fedele alla memoria del marito e alla sua assicurazione «sei l’unica donna che ha veramente contato per me».
Nel 1956 tornò a indossare i panni dell’arzdora di Villa Carpena, battendosi come una leonessa per il ritorno della salma del duce a Predappio. Ci riuscì un anno dopo, divenendo così la simbolica custode della fiamma del fascismo. Omaggiata dai capi del Msi, amata dai compaesani di qualsiasi colore, importunata da nostalgici e giornalisti a caccia di particolari piccanti sulla vita di Mussolini, Rachele riuscì in qualche a modo a ricostruire anche il rapporto con la figlia Edda e a ritagliarsi attimi di serenità coi figli e coi nipoti. Il suo cuore si fermò il 30 ottobre 1979, aveva 89 anni. Forse, come scrisse il figlio Romano, avrebbe preferito andarsene prima. A fianco del suo adorato Benito, al posto di Claretta.

mercoledì 14 gennaio 2009

Mussolini testimonial Gillette

Franco Bechis per "Italia Oggi" scrive : Nel libro di Carlo Masi (Viva l'Italia) è riportata una ridicola e imbarazzante dichiarazione di Benito Mussolini all'agenzia americana Associated Press: «Sono contrario alla barba. Il fascismo è contro la barba. La barba è segno di decadenza, la barba viene di moda con l'incipiente declino della gloria imperiale. Il fascismo fu la giovinezza dei visi sbarbati di fresco. Io devo usare una lama ogni volta che mi rado perché non esistono ancora lamette capaci di resistere a più di una rasatura della mia barba. La migliore, per ora, è la Gillette». Era il 1926. Mussolini faceva il testimonial (volontario e ridicolo) di un prodotto Usa. In barba, è il caso di dirlo, alla futura autarchia.
Considerato che ogni tanto un giornale locale riporta la notizia che ''è morto il Tal dei tali, barbiere del duce'', si evince che Mussolini cambiava ogni giorno anche il rasatore ufficiale.

lunedì 29 dicembre 2008

Zambutè, l'erborista che curava i poveri con pillole e ironia




di EMANUELE CHESI
«S‘È VOLTATO dall’altra parte, ed è morto». Un incipit brusco e diretto, del tutto in linea col carattere del personaggio, quello del manifesto che il 26 marzo 1950 venne affisso in tutta Forlì per dare l’addio a Augusto Rotondi. Un nome che diceva poco o nulla ai più. Per questo nel testo funebre campeggiava a caratteri cubitali il soprannome col quale era universalmente noto il defunto: Zambutè. ‘Ciarltatano ed empirico’: così lo aveva bollato una condanna per esercizio abusivo della professione medica già nel 1896. E pochi anni più tardi, nel 1904, altri guai giudiziari per quello strano tipo che veniva da Bagnacavallo e dispensava pillole e unguenti miracolosi ai contadini facendosi pagare poco o nulla. Ma la sua fama era cresciuta talmente che dalla sua parte in tribunale, ad assisterlo come avvocato difensore, si schierò addirittura il sindaco di Forlì dell’epoca, Bellini.Prima del Viagra e del Prozac, Zambutè distribuiva a piene mani (anzi, a cartocci) pillole colorate per tutte i malanni. Al perul ‘d Zambutè. Era il medico della povera gente ma tra i suoi pazienti non mancavano ricchi borghesi e personalità eccellenti. Aurelio Angelucci — che lo riforniva di ramarri per le sue misture segrete, ricevendone in cambio due soldi da spendere nelle famose mattonelle di gelato di De Fanti — ricorda che ‘E Sgnòr Avgusto’ curò anche la moglie di Mussolini. «Donna Rachele — racconta l’attore del Cinecircolo del Gallo — si rivolse a lui dopo aver consultato senza successo i luminari dell’epoca per via di fastidiosi dolori di stomaco che la tormentavano da mesi». Il racconto assume i colori della leggenda: «A Zambutè bastò guardarla negli occhi per arrivare alla diagnosi: voi avete bevuto l’acqua di un fosso e nella vostra pancia si sono sviluppate le uova di una rana!». Dalla prescrizione della pillola giusta alla guarigione fu un lampo. E così su Zambutè piovve la riconoscenza del duce sotto forma di una potente Moto Guzzi 500. Da quel giorno la inforcò ogni giorno per far visita ai suoi pazienti e anche per andare a ballare al sabato, visto che restò sempre ‘zovan’, come si diceva allora, cioè celibe. C’è però da immaginare che non facesse proprio un figurone come centauro: non aveva la patente e viaggiava solo in prima!

IL SEGRETO del suo successo era un librone di ricette e descrizioni di erbe medicinali che la sua famiglia si tramandava da generazioni. Lo stesso soprannone, derivato da un fantomatico erborista francese Jean Boutin, era un po’ il marchio di fabbrica del clan, tanto che una sorella che esercitava la stessa arte era conosciuta come Zambutena. L’ambulatorio di Zambutè era un camerone eternamente sovraffollato in uno stallatico col voltone in via Ravegnana. «Alto, robusto, un poco ingobbito, il volto raso sì da mettere in evidenza solchi e sporgenze sbozzate d’impeto da uno scalpello vigoroso — così lo descrive Antonio Mambelli — Zambutè si aggirava tra decine di pazienti in attesa fiduciosa della sua diagnosi e della fatidica prescrizione di pillole». Comprensivo e alla mano coi più poveri, era anche però spesso burbero, stizzoso e crudele con qualche malcapitato. Prima di tutto ce l’aveva con le donne: «Toti putan da Sciavanì» urlava, per vendicarsi in qualche modo di una fidanzata di quel quatiere che lo aveva abbandonato in gioventù. Poi, se gli girava male, deliziava i presenti con una diagnosi pubblica del tipo «T’è na faza culor dal scurez» oppure «Vat à ca ma pasa prema da e falignam, fat fè una cassa da mort». Daniele Gaudenzi, nel suo prezioso ‘Album di famiglia’, racconta che a chi lo pregava in ginocchio di dar fondo a tutta la sua sapienza per l’ennesima miracolosa guarigione, magari dopo essersi rivolto inutilmente a qualche medico famoso, Zambutè poteva persino rispondere: «Trop tard e mi oman.. Tsi avnù da me dop che lè stè stachè la buleta» (Troppo tardi, sei venuto da me dopo che è stata staccata la bolletta, cioè è già stata segnata la ‘partenza’).

TRA GLI ANNI Trenta e Quaranta, nonostante le accuse e i processi (ovviamente non era ben visto dai medici ai quali sottraeva frotte di clienti), Zambutè raggiunse l’apice della sua attività. E neanche i suoi modi bruschi e riuscirono a sfoltire l’assembramento di pazienti nel camerone di via Ravegnana (allora era Sobborgo Mazzini). Le sue pillole e i suoi intrugli funzionavano davvero. O almeno erano a un prezzo abbordabile per quella povera gente che non poteva nemmeno permettersi di rivolgersi al medico. Pagare Zambutè non era un problema: credito, dilazioni, ‘sconti’ erano all’ordine del giorno. Se qualcuno, particolarmente riconoscente, voleva dargli di più lui quasi si arrabbiava e sibilava «S’et fat de marché nigar te?» (hai fatto il mercato nero? cioè: hai troppi soldi fatti in modo disonesto?). Si spense in assoluta povertà il 26 marzo 1950 e dietro al suo feretro sfilarono praticamente tutti i forlivesi. Adler Raffaelli, l’autore del manifesto funebre, lo commemorò così sulle pagine di ‘Amarcord...’ di Gioiello e Zambelli: «Non tutti ora sanno che egli visse e come visse. Ma poiché egli agì originalmente e generosamente, ha lasciato di sè un’impronta duratura e benefica».

venerdì 31 ottobre 2008

Il duce in piazzale della Vittoria





Allora il viale della stazione di Forlì si chiamava ovviamente viale Benito Mussolini. Finalmente sta per mettersi in moto il progetto dell'amministrazione comunale per riqualificare tutta l'area di ingresso alla città: il viale sarà riportato all'antico, cioè all'originale impianto littorio, compresa la ristrutturazione dell'ex sede della Gioventù italiana del littorio.

domenica 24 agosto 2008

Quelle 'spie' forlivesi dietro la cortina di ferro

di Emanuele Chesi

GIUNSE assordante e pauroso anche a Forlì il rumore dei cingoli dei carri armati sovietici che nell’agosto di quarant’anni fa schiacciarono nel sangue la ‘Primavera di Praga’. Accanto alle speranze di Dubcek per un ‘socialismo dal volto umano’ c’erano infatti anche quelle dei cattolici della ‘Chiesa del silenzio’ cecoslovacca, da lungo tempo in contatto con la nostra città grazie all’azione pionieristica di don Francesco Ricci. Grazie al sacerdote collaboratore di don Giussani, parecchi giovani forlivesi toccarono con mano la realtà della vita al di là della cortina di ferro e furono testimoni di quel cruciale periodo della storia europea.

DON RICCI aveva creato infatti a Forlì il Centro studi Europa orientale (Cseo) intessendo una fitta rete di relazioni coi paesi dell’allora blocco sovietico, spinto dalla convinzione (a quel tempo pareva un’eresia) dell’indissolubile unità del continente europeo. Insieme a lui, impegnati in avventurosi viaggi nei paesi sotto il tallone dei regimi comunisti, c’erano personaggi come il professor Antonio Setola e il cantautore Claudio Chieffo, che tenne addirittura alcuni concerti clandestini a Praga.

UNA TESTIMONE diretta di quel periodo è Antonietta Tartagni, ex insegnante di lettere al liceo classico di Forlì, oggi in pensione. «Ci recavamo nei paesi dell’est spacciandoci per semplici turisti — racconta — Don Ricci era ovviamente in abiti civili e si presentava come un professore accompagnato dai suoi allievi. Ricordo Agnese Pesenti, Anna Lena, Licia Morra, Riccardo Lanzoni, Giorgio Aloisi e altri. Questa esperienza ha dato modo a tanti forlivesi di conoscere realtà allora difficili da penetrare: l’Europa era rigidamente divisa in due e si passava proprio da un mondo all’altro». La professoressa Tartagni visitò Praga prima e dopo l’invasione sovietica, avendo così modo di vedere l’accendersi delle speranze per la libertà e il ritorno alla normalizzazione totalitaria.

LA PARTICOLARITÀ della ‘missione’ del Csoe era l’attenzione al contatto diretto con le persone, anche se ciò obbligava in qualche modo a comportarsi quasi da agenti segreti. «Incontravamo i dissidenti stando sempre a attenti a non attirare l’attenzione della polizia — ricorda — Gli ultimi tratti di strada prima del luogo dell’appuntamento li percorrevamo a piedi o coi mezzi pubblici. Anche quando ci trovavamo faccia a faccia coi nostri interlocutori evitavamo accuratamente di parlare, per non farci riconoscere come stranieri da eventuali spie del regime. C’era chi arrivava a comprare vestiti usati sul luogo per ‘mimetizzarsi’ ancor di più. E la prima cosa che i nostri amici facevano entrando in casa era accendere la radio, in modo da annullare col rumore la presenza di ‘cimici’».

UN LAVORO impegnativo che i giovani forlivesi animati da don Ricci affrontavano con la consapevolezza di infondere una preziosa iniezione di coraggio ai dissidenti. «Ci dicevano che per loro era importantissimo sapere che in occidente c’era chi appoggiava la loro lotta e diffondeva le loro idee». I ragazzi di don Ricci rientravano infatti in Italia riportando in valigia i preziosi ‘samizdat’, i giornali e i libri proibiti dal regime. Un’attività rischiosa che agli stranieri poteva costare qualche grana e infine l’espulsione, ma che per i ‘sudditi’ dei regimi comunisti avrebbe comportato sicuramente l’arresto, la persecuzione e anche il campo di prigionia. «Per questo — dice ancora Antonietta Tartagni — ci preoccupavamo soprattutto di non lasciare traccia dei nostri incontri. Prima di attraversare il confine imparavamo a memoria i nomi e gli indirizzi dei nostri contatti, poi distruggevamo tutti i foglietti».

A SUGGELLARE il profondo legame tra l’allora Cecoslovacchia e Forlì, lo choc dell’invasione sovietica colse un gruppo di giovani praghesi in visita alla nostra città proprio su invito di don Francesco Ricci. «Ebbero ovviamente un grande sbandamento — ricorda la professoressa Tartagni — e qualcuno fu anche tentato di chiedere asilo politico e restare in Italia. Poi tutti decisero di rientrare in patria, seppure con ansia e preoccupazione». Tornata in seguito più volte oltrecortina, Antonietta Tartagni ebbe modo di riparlare dell’entusiasmante periodo della Primavera di Praga coi suoi amici anche nei tempi più cupi: «Tutti ne conservavano un ricordo molto positivo, di grande speranza e unità e del popolo. Lo stesso don Ricci disse che i semi gettati in quel periodo non sono andati perduti ma hanno dato i frutti vent’anni dopo».