sabato 1 maggio 2010

Gastone Proli: il mio necrologio per Mussolini

Sessantacinque anni fa, in questa giornata, l’esecuzione di Benito Mussolini suggellava le convulse e tragiche fasi del ritorno dell’Italia alla libertà e alla democrazia. Un lutto per qualcuno. Così Gastone Proli, ex segretario del Msi forlivese prima della ‘svolta di Fiuggi’, pubblica oggi sul Carlino Forlì una necrologia per Benito Mussolini. Il testo recita: «Quando un popolo continua ad esaltare il clima della guerra civile, è lontano il tempo della pacificazione nazionale».

Proli, pubblicare un necrologio per Mussolini all’indomani della festa della Liberazione è una provocazione politica?
«Assolutamente no. Se lo avessi fatto il 25 aprile sarei stato sì un folle e un provocatore. Ma io non offendo nessuno, ricordo solo Mussolini e con lui tutti i caduti della guerra civile. Onoro chi ha combattuto per le proprie idee».

Indicare Mussolini come una vittima appare però come un’esaltazione del fascismo.
«E’ stata una guerra fratricida. Non tutto il bene era da una parte e non tutto il male era dall’altra. E’ insopportabile che ancora oggi si esaltino, insieme agli eroi, anche i delinquenti. E pure tanti voltagabbana. L’Italia dovrebbe prendere esempio dalla Spagna di Franco che decise di seppellire insieme nella valle dei caidos tutti i combattenti della guerra civile».

Lei si definirebbe ancora oggi un fascista?
«Non sono un nostalgico. Anche a me danno fastidio i negozi di paccottiglia e le bandiere naziste. Dico chiaramente che Mussolini era un dittatore e che il regime ha fatto gravissimi errori, anche morali come le leggi razziali. Tuttavia quell’esperienza politica va valutata in quel contesto storico, tenendo conto anche degli aspetti innovativi per la società, presenti ancora oggi. E comunque il fascismo, in quanto a vittime e orrori, non è neanche lontanamente paragonabile a nazismo e comunismo».

La destra italiana è ancora legata al fascismo?
«Il fascismo è un’esperienza passata e non più attuabile. Fini, che parlava di fascismo del Duemila appena qualche anno fa, diceva una stupidaggine. La destra italiana deve però assumersi le sue responsabilità e non può negare le sue radici, la sua storia. Per me il valore assoluto è la coerenza».

di EMANUELE CHESI

lunedì 8 marzo 2010

E Mussolini disse no alla regione Romagna

LA GRAFIA è svolazzante ed elegante insieme, s’intravede un sapiente uso del pennino, degno sicuramente delle occasioni speciali. ‘Proposta per il riconoscimento ufficiale della Romagna in regione autonoma e distinta dalla Emilia’: recita così il ‘9° oggetto’ all’ordine del giorno dell’adunanza del consiglio del Comune di Mercato Saraceno. La data è quella dell’8 febbraio 1924 e il civico consesso, presieduto dall’assessore anziano Baraghini Ugo, con l’assistenza del ‘donzello comunale’, certifica l’unanime voto favorevole alla proposta avanzata dalla Camera di commercio di Forlì. E’ il primo atto pubblico _ una vera e propria scoperta riemersa dagli archivi grazie alle ricerche di Edoardo Turci _ che testimonia la nascita dell’autonomismo romagnolo in senso politico-istituzionale, dopo l’incubazione e il lancio culturale a livello di massa patrocinato prima da Emilio Rosetti e poi da Aldo Spallicci.

LA PROPOSTA della Camera di commercio, retta allora da Ercole Galassi, facoltoso commerciante di granaglie di fede repubblicana, s’inquadra in un periodo di vivace attivismo romagnolista, probabilmente rinfocolato anche dall’attenzione che il duce Benito Mussolini dedicava alla sua terra d’origine. Il Regio decreto del 4 marzo 1923 sancisce infatti l’annessione alla Provincia di Forlì del territorio del mandamento di Rocca San Casciano, la cosiddetta Romagna Toscana fino ad allora compresa nella Provincia di Firenze. Si tratta di un riassetto complessivo del territorio provinciale che ha ovviamente una valenza di razionalizzazione ma è indubbio che Mussolini coltivi in quel frangente anche disegni politici e propagandistici più ampi. La ‘provincia del duce’ aumenta infatti il suo peso economico e la sua rilevanza territoriale, annettendo pure il Fumaiolo e le sorgenti del Tevere. Il legame tra la Romagna, Roma e i ‘destini della Patria’ è tracciato in maniera evidente a tutti.

LA CAMERA di commercio di Forlì coglie la palla al balzo e cavalca questa rinascita romagnola promuovendo verso tutti gli enti locali un’azione per il riconoscimento ufficiale della Romagna come regione autonoma. Nel rigido sistema centralistico sabaudo (il regime sta muovendo i primi passi ma non c’è ancora stata la svolta autoritaria che seguirà il delitto Matteotti) le regioni non hanno poteri autonomi, sono una mera suddivisione geografica che si porta dietro gli organi decentrati dello Stato. Ma questa assenza di rilevanza reale dell’ente regione è ancora più significativa del carattere identitario della richiesta. «Nelle motivazioni della Camera di commercio si leggono però motivi concreti che anticipano passo passo i nostri ragionamenti _ osserva Stefano Servadei, fondatore del Mar _ Il dibattito sul tema dell’autonomia era allora già vivo, animato anche in Parlamento dagli interventi dell’on. Giovanni Braschi del Partito Popolare e dell’on. Aldo Spallicci del Pri».

L’ENTE camerale affermava in sostanza che la Romagna, ingrandita e in collegamento col centro Italia, ha «caratteristiche sue proprie etnografiche, geologiche, storiche che nella realtà la distinguono dall’Emilia, di cui fa parte solo nominalmente e che è nell’interesse nazionale considerare le regioni costituite in base a criteri e elementi naturali e non già in base a criteri artificiali e amministrativi, poiché solo col primo sistema che si possono ottenere tutti quei vantaggi che derivano dallo svolgersi delle attività di un ente perfettamente omogeneo».

L’INIZIATIVA, che si muoveva come oggi a cavallo di tematiche identitarie, culturali ed economiche, raccolse consensi nei consigli comunali del territorio forlivese e cesenate ma venne ingloriosamente bocciata a Ravenna. Finché si parlava di cultura e di orgoglio campagnolo, il ‘romagnolismo’ era patrimonio comune dall’Adriatico al Sillaro, quando si passava a parlare di assetti istituzionali però cominciavano i distinguo. Roberto Balzani nel suo libro ‘La Romagna’ riporta la stroncatura senza appello da parte del Comune di Ravenna: «Non essendo fortunatamente in Italia la regione sotto nessuna forma giuridica esso non intende prestarsi neppure indirettamente a costituirla e formarla». E un giornale locale dava voce ai timori di un’egemonia politica di Forlì, sostenendo che l’espansione del «bel sito che diè i natali a Benito» avrebbe ridotto la provincia ravennate a una costolettina d’agnello col relativo osso, cioè poco più del capoluogo e un pezzetto di costa.

RESPINTA sdegnosamente dai cugini ravennati, l’iniziativa della Camera di commercio venne definitivamente affossata dal sottosegretario Acerbo che, certamente sotto dettatura di Mussolini, rispose in Parlamento alle interpellanze dei deputati romagnoli affermando che di nuove regioni non se ne parlava neppure perché il regime era centralistico e unitario. Una motivazione che poteva valere allora, osservano gli autonomisti romagnoli, ma che non ha più ragione di esistere oggi visto che il federalismo è entrato a pieno titolo nella nostra Costituzione. I timori di campanile — a partire dall’inesplorato tema del capoluogo di una futura regione romagnola — invece sono sempre quelli di un secolo fa.

Emanuele Chesi