mercoledì 7 novembre 2007

'Benito, sono anch'io un voltagabbana'



di E
manuele Chesi

C’ È CHI GIURA che in una foto sfocata dell’assalto degli anticlericali forlivesi alla statua della Madonna, sfrattata dalla piazza per far posto a Saffi, accanto a uno scatenato giovane Mussolini spicchi proprio lui, Aldo Vittori, meglio noto come E zop ad Vitori. Era il 1909 e col suo bastone nodoso picchiava come un forsennato contro la statua della Vergine, impegnato in una gara blasfema con l’amico Benito. Del resto sul biglietto da visita sfoggiava il titolo di cui andava più fiero: sbranatore del clero.
Aldo Vittori è uno di quei personaggi che racchiudono nella loro esistenza l’anima di una città e nei loro atteggiamenti ne distillano i caratteri, anche quando sono del tutto contraddittori. E così la sua vicenda biografica diventa presto epopea, arricchita di mille aneddoti di incerta veridicità ma di indubbio fascino.

IL SOPRANNOME gli veniva direttamente dalla sua condizione di poliomelitico dalla nascita. Sciancato, si diceva allora, in tempi poco propensi al politically correct. E lui aveva reagito con rabbia e impeto alla sua menomazione fisica: non aveva l’aria di voler essere compatito, anzi andava all’attacco, aggrediva il prossimo. E i religiosi in particolare. Da anarchico e rivoluzionario convinto, figlio di un capitano garibaldino, si faceva vanto di un anticlericalismo senza sconti. Quando trascinava le sue gambe lese per il centro di Forlì e intravedeva una tonaca, roteava in alto il bastone e lanciava grida irripetibili. Daniele Gaudenzi in ‘Album di famiglia’ gli attribuisce l’invenzione di una frase diventata lo slogan degli anticlericali forlivesi: «Tira la rete, ché passano gli storni!», riferita al corteo di seminaristi in sottana nera che venivano condotti in giro per il centro cittadino sotto la guida dei superiori. E il leader romagnolista Stefano Servadei racconta che un giorno, attraversando piazza Saffi coperta dalla neve, E zop ad Vitori incrociò un frate tutto intirizzito e coi piedi scoperti e paonazzi nei poveri calzari. Impietosamente gli sibilò dietro: «Eh fraticello, se non esiste il paradiso hai preso proprio una bella fregatura!». E l’espressione originale in dialetto fu decisamente più colorita e con un’oscena allusione sessuale.

ORAFO di professione, Vittori abitava in via Guerrini ed era, come tanti forlivesi, un assiduo frequentatore di osterie. Tra progetti rivoluzionari e boccali di vino, tirava tardi in una bettola di piazza XX Settembre. E con un tasso alcolico da schiantare un etilometro tornava a casa per via Giorgio Regnoli, allietando gli onesti cittadini con una filastrocca di scurrilità ed esaltazioni delle scarse virtù delle pie donne forlivesi. Amante del melodramma, frequentava il teatro comunale, ma anche lì non riusciva a frenare il suo spirito di contestatore e spesso dava in escandescenze dal loggione. Tanto che per un certo periodo gli fu addirittura vietato l’ingresso.
Negli anni Venti, mentre l’ex compagno rivoluzionario Benito diveniva dittatore e faceva pace col Papa, anche Vittori rinnegò improvvisamente il suo anticlericalismo. Neanche a dirlo, la ‘conversione’ fu tutto merito di una pia signorina che riuscì incredibilmente ad addolcire il suo carattere. Si racconta che Vittori, pur di non perdere l’occasione di farsi una famiglia (era in là con gli anni e non aveva più parenti), accettò addirittura di sposarsi in chiesa. Ma pose la condizione che la cerimonia avvenisse alle sei del mattino, in una chiesetta fuorimano e con un prete discreto. Ma la notizia si diffuse lo stesso, gettando lo sconcerto tra le fila degli anticlericali e il povero Vittori fu accolto all’uscita dalla chiesa da una gragnuola di insulti, i più leggeri dei quali furono traditor e vigliac.

ERA ORMAI passato dall’altra parte, quella dei benpensanti e degli amanti dell’ordine costituito (come l’amico Benito...), ma evidentemente qualcosa gli rodeva ancora dentro. Nel febbraio 1929, nel giorno della conciliazione tra Stato e Chiesa, si ritrovò a passare in piazza Saffi e si fermò a chiacchierare con alcuni amici. Si discuteva della risoluzione del problema del potere temporale e lui, alludendo alla piazza fredda e innevata, se ne uscì con una battuta delle sue: «Luitar i se tnù e puter, a nuitar ia lascé e tempurel» (loro si sono tenuti il potere e a noi hanno lasciato il temporale).

MA IL MOMENTO cruciale della sua epopea doveva ancora arrivare. Anzi, chissà se è mai arrivato veramente. Anche se nel racconto popolare è ormai una verità storica. Comunque: si dice che durante una visita ufficiale di Mussolini alla sua vecchia città, Vittori indossò un vecchio cappotto rivoltato e si piazzò in mezzo alla strada, bloccando il corteo guidato dall’auto del Duce. E prima che le guardie lo potessero agguantare, guardando negli occhi il vecchio rivoluzionario socialista, urlò: «Fat curag Benito, aiò vulté gabana neca me!», riferendosi al matrimonio in chiesa e al concordato con la Santa Sede. Pare che il Duce lo riconobbe al volo, sorrise, e con un gesto della mano fermò i fascisti forlivesi già pronti a dargli una sonora lezione. «Ed anche la circostanza — nota Servadei — evidenzia due positive virtù romagnole: la solidarietà nelle trasgressioni e la persistente amicizia degli interpreti, anche con ruoli personali notevolmente mutati».
In età più matura Aldo Vittori cambiò però veramente vita. Insieme alla moglie si recava a messa alla chiesa del Suffragio, diventò amico di don Pippo e, intrapresa la professione di odontotecnico, si dedicò all’assistenza di poveri e bisognosi, collaborando con monache e frati che una volta vedeva come fumo negli occhi! Ma sulla sua figura la battaglia politica non era ancora finita: i cattolici raccontano che si spense nel 1950 a settant’anni confortato dalla fede e assistito da don Pippo, invece i laici rivendicano l’ultimo suo gesto teatrale e dissacratore. «In punto di morte l’antico sbranatore del clero si risvegliò - assicura Servadei — e ottenne un funerale senza prete alla mattina presto, un rito non insolito per i romagnoli dell’epoca
».

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