sabato 26 luglio 2008

L'impero? Merito di 'Bertazena e Cuciraz'

SE L'ITALIA, sia pure per pochi anni, ebbe un impero, fu merito suo. No, non di Benito Mussolini. Ma di Adolfo Bertaccini. O almeno lui, detto ‘Bertazena e Cuciraz’, ne era profondamente convinto, tanto che negli anni che seguirono la conquista dell’Etiopia non perdeva occasione per ripetere: «Se l’Italia la ià un impero e merit l’è neca mi». Quel refrain faceva sorridere qualcuno che non prendeva sul serio le parole di un ‘pubblico vetturino’ (da qui il soprannome di Cuciraz, cocchieraio) alto e dinoccolato, coi baffi all’insù, ma avevano un certo effetto sulle autorità fasciste e sui più anziani che si ricordavano i tempi delle feroci lotte politiche forlivesi all’inizio del secolo.

MA QUAL ERA l’eroica impresa compiuta da Bertaccini ad onore dell’Italia imperiale e littoria? Bisogna fare un passo indietro fino agli precedenti la Prima guerra mondiale. All’epoca in cui Benito Mussolini era un giovane dirigente socialista — un disgraziato, poco meno di un terrorista, per i benpensanti e i conservatori forlivesi — Bertaccini era più o meno una personalità a Forlì. ‘E Cuciraz’ presidiava piazza Saffi con la sua carrozzella e col suo portamento altero incuteva rispetto. In epoca di pre-motorizzazione, il suo era un servizio pubblico la cui utilità era universalmente riconosciuta: il ‘cocchieraio’ non portava solo a spasso i maggiorenti ma assicurava anche ai cittadini comuni i necessari collegamenti con l’ospedale, gli uffici pubblici e i paesi vicini. Una domenica pomeriggio Bertaccini caricò a bordo del suo calesse l’arruffapopolo Mussolini e una compagna più attempata e allora ben più famosa di lui: Angelica Balabanoff, una rivoluzionaria russa già collaboratrice di Lenin e ora leader di primo piano del partito socialista. La Balabanoff, donna intelligente ed energica ma non certo avvenente, aveva preso sotto la sua ala protettiva il giovane Mussolini, già sposato con Rachele. E si diceva comunque che il loro legame non fosse solo politico.

BERTACCINI accompagnò i due socialisti a un comizio a Villafranca. Il clima era incandescente perché in Romagna socialisti e repubblicani (entrambi partiti estremisti e ’antisistema’ si direbbe oggi) si fronteggiavano spesso violentemente. I mazziniani contestarono infatti rumorosamente il comizio dei ‘rossi’, apostrofando volgarmente la Balabanoff: «Sta zeta, tsi brota». La rissa che ne seguì si concluse con l’arrivo dei carabinieri, ma sul prato rimase sanguinante un giovane repubblicano, ferito a a una coscia da una coltellata. Mentre Mussolini e la russa fuggivano precipitosamente a bordo del calesse di Bertaccini, scattò la missione punitiva dei repubblicani. Stavolta Benito rischiava la ‘gabanaza’, la punizione definitiva. Al ritorno verso Forlì su via Lunga (l’attuale via Isonzo), il calesse incappò infatti in un posto di blocco di militanti repubblicani. Bertazena non perse il sangue freddo: gridò al futuro duce e alla Balabanoff di tirare le tendine e non farsi vedere. Poi prese a urlare a squarciagola: «Lasciatemi passare! Sto portando una donna a partorire! E’ in pericolo di vita!». I bellicosi repubblicani non dubitarono delle sue parole e fecero strada a lui e ai due socialisti che altrimenti avrebbero davvero rischiato la pelle.

COSÌ ‘E Cuciraz’ aprì a modo suo la strada alla folgorante carriera del maestro di Predappio. Che rischiò altre volte la vita ma riuscì comunque a governare fino al fatidico 25 luglio 1943, quando crollò il regime fascista. Durante il Ventennio anche Bertazena fece carriera. Si modernizzò, passando dal cavallo all’auto e poi al bus, in verità un vecchio catorcio che parecchie volte lasciò a piedi lui e i suoi numerosi passeggeri. L’ex parlamentare Stefano Servadei lo ricorda ancora col suo tipico look: «Aveva un berretto paramilitare con visiera lucida e rigida, un vecchio giaccone di pelle, un robusto paio di gambali. A metà strada, dunque, fra un corridore motociclista dell’epoca e un commissario politico bolscevico». Negli anni Trenta del secolo passato fu un vero monopolista del trasporto pubblico forlivese. Si assicurò anche il servizio di trasporto delle ‘signorine’ della casa di piacere di via Felice Orsini. Ogni ‘quindicina’ portava in giro per la città le nuove arrivate per una sorta di passerella pubblicitaria e le accompagnava infine al Laboratorio di igiene di viale Salinatore per la ‘prova dei vetrini’, l’esame necessario all’esercizio dell’attività. Una volta però si dimenticò di ritirare dal laboratorio i risultati degli esami e consegnarli alla ‘maitresse’. L’attività della ‘casa chiusa’ rimase così bloccata e Bertazena rimediò una citazione per danni che gli costò diverse centinaia di lire, una cifra consistente per l’epoca.

DA LÌ IN POI le fortune imprenditoriali di Bertaccini declinarono. Ma il colpo di grazia glielo diede la sfortunata conclusione di un’epica gita a Comacchio. ‘E Cuciraz’ era stato ingaggiato da una comitiva di cacciatori con cani al seguito. C’era la prospettiva di una bella battuta di caccia e di un lauto guadagno, ma una volta giunto sul Po l’autista entrò con troppa irruenza su un traghetto e il suo vecchio bus finì nell’acqua. I cacciatori si misero in salvo alla meglio, solo Bertaccini rimase incastrato nel suo automezzo impantanato nel fango, lanciando disperate grida d’aiuto. «Uiè un ca cus lamenta. Sa fasegna, al lasegna in do clè (c’è un cane che si lamenta, cosa facciamo? Lo lasciamo dov’è?)» lo canzonavano i cacciatori. «Burdel, un’è un ca, a so me, e vostar Bertazena (ragazzi, non è un cane, sono io, il vostro Bertaccini)» replicò lui ancor più disperato. In qualche modo riuscì poi a rimettere in moto il bus, ma nella foga di liberarsi dalla riva fangosa pigiò troppo sull’acceleratore e travolse due pagliai di una vicina casa colonica, finendo poi per planare su un letamaio. Tornati a Forlì i cacciatori raccontarono l’avventura commentando: «A s’avesum d’anghé, ma as divertessum (stavamo per annegare, ma ci siamo divertiti)». «Persi l’autobus e il credito professionale — racconta ancora Servadei — Bertaccini si ritirò dal lavoro. Di tanto in tanto aiutava un’impresa di pompe funebri nei trasporti che si facevano coi cavalli. Poi una breve malattia lo portò ad essere diretto utente del carro funebre. Era, comunque, già entrato a pieno titolo nella storia cittadina e migliaia di forlivesi continuarono a ricordarlo con simpatia>.

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