lunedì 7 gennaio 2008

Il 'galantuomo' che sacrificò il suo gatto per tener fede alla parola data



Per un galantuomo romagnolo come s’intendeva a cavallo tra Ottocento e Novecento, mantenere la parola data non avevo prezzo. E Domenico Bedei, nato a Petrignone nel 1850 e noto universalmente col soprannome di ‘E Gob ad Bartlet’, voleva a tutti costi essere considerato un galantuomo, anche se in verità non era proprio uno stinco di santo.

GIÀ L’ASPETTO FISICO non l’aiutava e poi il carattere... Daniele Gaudenzi in ‘Album di famiglia’ racconta infatti che ‘E Gob’ era stato educato da un prete a colpi di orazioni recitate in ginocchio sui grani del frumento: ovvio che ne uscisse fuori un acceso anticlericale, bestemmiatore, appassionato inseguitore di sottane e incline alle cattive compagnie. Si lasciò infatti convincere a partecipare a un colpo in una villa signorile di San Benedetto in Alpe ma tutto andò storto. Le rapinate, due donne, reagirono vigorosamente, i ladri se la dettero a gambe ma ‘E Gob’ venne riconosciuto e arrestato. Così scontò una dozzina d’anni di condanna in carcere a Volterra, lasciando a casa la moglie appena rimasta incinta. Tornato in circolazione col marchio di ‘galeotto’, visse per anni ai margini della società, adattandosi a fare il venditore ambulante nelle campagne. Poi si conquistò un ‘ruolo’ come venditore di caldarroste: il suo marchio di fabbrica era però il conteggio delle castagne più l’augurio di varie gravi malattie. In dialetto suonava più o meno così: «Per te ecco tre marroni più un cancro...». Ma non si tenne comunque lontano dai guai e divenne ospite fisso di caserme dei carabinieri e carcere. Stefano Servadei nel libro di memorie ‘Le radici’ racconta che a Forlì è rimasta celebre un’apparizione di ‘E Gob ad Bartlet’ in tribunale. Interrogato dal giudice dopo che un suo sospetto complice si era dichiarato estraneo al furto di cui erano accusati, ‘E Gob’ affermò con sicurezza, a voce alta e ferma per impressionare giuria e pubblico: «Se non c’era lui, non c’ero neppure io. Mi trovavo infatti alle sue spalle».

LA DOTE per cui era universalmente noto a Forlì era però la stupefacente capacità di imitare il miagolio del gatto in amore. Grazie a questo dono ‘E Gob ad Bartlet’ era divenuto un implacabile cacciatore di felini! Non per crudeltà ma per semplice tornaconto economico: era diventato infatti il ‘fornitore ufficiale’ di pietanze per i modesti circoli ricreativi d’allora che, in quanto a gastronomia, ceto non andavano tanto per il sottile. Una volta, in previsione di una cena sociale, assicurò la ‘fornitura’ di sedici felini. Giunto però alla scadenza della consegna, si ritrovò solo con quindici prede. Per mantenere la parola data non ci pensò due volte: pur con le lacrime agli occhi tirò il collo all’amato micio Morino e consegnò quanto pattuito in precedenza. In fondo, anche l’ex galeotto voleva essere considerato un galantuomo.
In vecchiaia fu in qualche modo ripagato. Nonostante non fosse proprio un tipo raccomandabile, alcuni amici pressarono il direttore Pietro Zangheri affinché lo accogliesse al Ricovero cittadino. A ottant’anni suonati ‘E Gob’ non aveva però ancora messo la testa a posto: non ci stava a passare per ‘vecchione’ e frequentava ancora certe signore molto disponibili.

LE SUE AVVENTURE erotiche a pagamento gli costarono però una malattia venerea e altre complicazioni che in breve tempo lo portarono alla tomba. Un amico telefonò allora all’austero Zangheri per chiedergli spiegazioni sull’accaduto. Il direttore cercò di non esporsi in una situazione che gettava discredito sull’istituto e rispose: «E’ stato colpito da una malattia... giovanile!». E l’altro, evidentemente già a conoscenza delle vere cause del decesso, gli replicò ridendo: «E cos’è stato? Scarlattina o morbillo?».

Emanuele Chesi

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