lunedì 29 dicembre 2008

Zambutè, l'erborista che curava i poveri con pillole e ironia




di EMANUELE CHESI
«S‘È VOLTATO dall’altra parte, ed è morto». Un incipit brusco e diretto, del tutto in linea col carattere del personaggio, quello del manifesto che il 26 marzo 1950 venne affisso in tutta Forlì per dare l’addio a Augusto Rotondi. Un nome che diceva poco o nulla ai più. Per questo nel testo funebre campeggiava a caratteri cubitali il soprannome col quale era universalmente noto il defunto: Zambutè. ‘Ciarltatano ed empirico’: così lo aveva bollato una condanna per esercizio abusivo della professione medica già nel 1896. E pochi anni più tardi, nel 1904, altri guai giudiziari per quello strano tipo che veniva da Bagnacavallo e dispensava pillole e unguenti miracolosi ai contadini facendosi pagare poco o nulla. Ma la sua fama era cresciuta talmente che dalla sua parte in tribunale, ad assisterlo come avvocato difensore, si schierò addirittura il sindaco di Forlì dell’epoca, Bellini.Prima del Viagra e del Prozac, Zambutè distribuiva a piene mani (anzi, a cartocci) pillole colorate per tutte i malanni. Al perul ‘d Zambutè. Era il medico della povera gente ma tra i suoi pazienti non mancavano ricchi borghesi e personalità eccellenti. Aurelio Angelucci — che lo riforniva di ramarri per le sue misture segrete, ricevendone in cambio due soldi da spendere nelle famose mattonelle di gelato di De Fanti — ricorda che ‘E Sgnòr Avgusto’ curò anche la moglie di Mussolini. «Donna Rachele — racconta l’attore del Cinecircolo del Gallo — si rivolse a lui dopo aver consultato senza successo i luminari dell’epoca per via di fastidiosi dolori di stomaco che la tormentavano da mesi». Il racconto assume i colori della leggenda: «A Zambutè bastò guardarla negli occhi per arrivare alla diagnosi: voi avete bevuto l’acqua di un fosso e nella vostra pancia si sono sviluppate le uova di una rana!». Dalla prescrizione della pillola giusta alla guarigione fu un lampo. E così su Zambutè piovve la riconoscenza del duce sotto forma di una potente Moto Guzzi 500. Da quel giorno la inforcò ogni giorno per far visita ai suoi pazienti e anche per andare a ballare al sabato, visto che restò sempre ‘zovan’, come si diceva allora, cioè celibe. C’è però da immaginare che non facesse proprio un figurone come centauro: non aveva la patente e viaggiava solo in prima!

IL SEGRETO del suo successo era un librone di ricette e descrizioni di erbe medicinali che la sua famiglia si tramandava da generazioni. Lo stesso soprannone, derivato da un fantomatico erborista francese Jean Boutin, era un po’ il marchio di fabbrica del clan, tanto che una sorella che esercitava la stessa arte era conosciuta come Zambutena. L’ambulatorio di Zambutè era un camerone eternamente sovraffollato in uno stallatico col voltone in via Ravegnana. «Alto, robusto, un poco ingobbito, il volto raso sì da mettere in evidenza solchi e sporgenze sbozzate d’impeto da uno scalpello vigoroso — così lo descrive Antonio Mambelli — Zambutè si aggirava tra decine di pazienti in attesa fiduciosa della sua diagnosi e della fatidica prescrizione di pillole». Comprensivo e alla mano coi più poveri, era anche però spesso burbero, stizzoso e crudele con qualche malcapitato. Prima di tutto ce l’aveva con le donne: «Toti putan da Sciavanì» urlava, per vendicarsi in qualche modo di una fidanzata di quel quatiere che lo aveva abbandonato in gioventù. Poi, se gli girava male, deliziava i presenti con una diagnosi pubblica del tipo «T’è na faza culor dal scurez» oppure «Vat à ca ma pasa prema da e falignam, fat fè una cassa da mort». Daniele Gaudenzi, nel suo prezioso ‘Album di famiglia’, racconta che a chi lo pregava in ginocchio di dar fondo a tutta la sua sapienza per l’ennesima miracolosa guarigione, magari dopo essersi rivolto inutilmente a qualche medico famoso, Zambutè poteva persino rispondere: «Trop tard e mi oman.. Tsi avnù da me dop che lè stè stachè la buleta» (Troppo tardi, sei venuto da me dopo che è stata staccata la bolletta, cioè è già stata segnata la ‘partenza’).

TRA GLI ANNI Trenta e Quaranta, nonostante le accuse e i processi (ovviamente non era ben visto dai medici ai quali sottraeva frotte di clienti), Zambutè raggiunse l’apice della sua attività. E neanche i suoi modi bruschi e riuscirono a sfoltire l’assembramento di pazienti nel camerone di via Ravegnana (allora era Sobborgo Mazzini). Le sue pillole e i suoi intrugli funzionavano davvero. O almeno erano a un prezzo abbordabile per quella povera gente che non poteva nemmeno permettersi di rivolgersi al medico. Pagare Zambutè non era un problema: credito, dilazioni, ‘sconti’ erano all’ordine del giorno. Se qualcuno, particolarmente riconoscente, voleva dargli di più lui quasi si arrabbiava e sibilava «S’et fat de marché nigar te?» (hai fatto il mercato nero? cioè: hai troppi soldi fatti in modo disonesto?). Si spense in assoluta povertà il 26 marzo 1950 e dietro al suo feretro sfilarono praticamente tutti i forlivesi. Adler Raffaelli, l’autore del manifesto funebre, lo commemorò così sulle pagine di ‘Amarcord...’ di Gioiello e Zambelli: «Non tutti ora sanno che egli visse e come visse. Ma poiché egli agì originalmente e generosamente, ha lasciato di sè un’impronta duratura e benefica».